Quando arriva un nuovo paziente di solito la prima domanda che fa è di essere trasformato in qualcosa di diverso da ciò che è: chi è ansioso vuole diventare calmo, chi si sente debole si desidera forte, chi è spaventato vuole trovare il coraggio.
Si tratta di un’idea che spesso deriva dal paragonarci continuamente agli altri, un’abitudine che ci spinge a pensare non solo che la vita degli altri è sempre migliore della nostra, ma che ci fa perdere in un’immagine idealizzata dell’Altro che, diversamente da noi, sarebbe così sempre felice, riuscendo ad evitare la sofferenza.
Così ci convinciamo che se riusciamo ad assomigliare un po’ di più a quel personaggio famoso o a quell’amico popolare sempre di buonumore allora saremo finalmente felici.
All’inizio del percorso le aspettative di trasformazione sono spesso molto alte e sono accompagnate da una bassa autostima: dalla convinzione cioè, che se soffriamo è perché ci manca qualcosa che speriamo il terapeuta possa fornirci, guarendoci.
C’è un momento però in cui smettiamo di desiderarci diversi e iniziamo a valorizzare chi siamo con i nostri limiti e le nostre risorse. É quello il momento in cui inizia un lavoro più profondo, in cui siamo grati per la nostra storia, per quanto difficile possa essere stata, perché è anche grazie al dolore che abbiamo vissuto che oggi siamo noi stessi.
Realizziamo che i nostri limiti fanno parte di noi e che non abbiamo bisogno di liberarcene per andare bene.
Smettiamo di pensare che dobbiamo cambiare il nostro corpo, che dobbiamo deformarci fino a diventare irriconoscibili ed estranei a noi stessi e iniziamo ad amarci per ciò che siamo oggi, con tutti i nostri “difetti”.
Non abbiamo bisogno di essere qualcun altro per essere amati, abbiamo bisogno solo di sintonizzarci con noi stessi e di iniziare ad amarci per primi con tutte le nostre cicatrici.