Romina Rubino
Psicologa, Psicoterapeuta Psicoanalista italiana a Londra
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La solitudine

by Romina Rubino 27/03/2021
written by Romina Rubino

Se c’è un tema presente come un filo rosso in tutti i percorsi di terapia è sicuramente quello della Solitudine.
Per chi vive in una grande città come Londra soprattutto se italiano e quindi lontano dalla propria cultura, dal calore della famiglia e dal supporto degli amici di sempre, la solitudine diventa un tema centrale e urgente da affrontare.

In realtà, a prescindere da dove viviamo, la solitudine spesso è vissuta come uno stato doloroso da cui sentiamo di doverci allontanare, che vogliamo evitare a tutti i costi perché ci punge nel profondo, ci spinge ad un confronto crudo e senza filtri con noi stessi.

Vasco Rossi in una vecchia canzone diceva: “Quando c’ho il mal di stomaco con chi potrei condividerlo?”, un modo efficace per ricordarci che nelle situazioni più importanti, significative della vita siamo soli. Quando stiamo male, ma anche quando siamo molto felici, quando abbiamo paura e quando troviamo il coraggio di andare oltre un nostro limite, l’altro può starci accanto ma profondamente siamo soli con noi stessi.

In una società individualista ed egocentrica in cui spiccare, essere speciali ed unici è un valore, viviamo il paradosso di sentirci soli, sempre virtualmente “connessi” col mondo ma spesso profondamente disconnessi da noi stessi e dalle relazioni autentiche.
La solitudine diventa allora un modo per difenderci, un buco buio e scomodo, ma strategico per tenerci lontani dalla sofferenza delle relazioni che non vanno come vorremmo e allora “se non sono amato come mi aspetto, meglio che me ne stia da solo!”.

La solitudine però, lungi dall’essere solo una modalità difensiva, o uno stato di isolamento che taglia fuori l’altro, può essere invece tempo e luogo terapeutico per stare con le nostre emozioni (anche quelle più dolorose), può diventare raccoglimento, cioè occasione per integrare pensieri e vissuti ed imparare, esperienza dopo esperienza, a farci compagnia… anche da soli.

Prova a sperimentare la solitudine, tipica di questo periodo, come una risorsa nuova per conoscerti meglio nel profondo. Durante questa settimana: ritagliati piccoli spazi di solitudine e, cercando di andare oltre la prima fase di paura ed impazienza, prova ad appuntare quali sono le sensazioni e i pensieri che emergono.

In questo video riflettiamo su:
La differenza tra stare soli e sentirsi soli.
La paura della solitudine
Cosa ci spinge a diventare “lupi solitari”
Gli effetti benefici del saper stare da soli

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L’importanza di saper aspettare

by Romina Rubino 27/03/2021
written by Romina Rubino

Vi capita mai di ritrovarvi a sbuffare in fila fuori da un negozio o mentre siete in attesa al telefono?
Io spesso osservo i volti seccati dei guidatori fermi al semaforo rosso e mi viene sempre da pensare a quanta vita sprechiamo nel timore di non perdere tempo.

Quando iniziamo un percorso di terapia siamo chiamati a diventare “pazienti” in tutti i sensi: è uno dei primi temi che mi trovo ad affrontare quando, puntualmente (e comprensibilmente), un nuovo paziente mi chiede “quanto dovrò aspettare prima di vedere i primi risultati?”

La risposta è che non lo so, perché ogni percorso è un viaggio a sé e nessuno sa quanto lontano si può andare. Quello che invece so è che i cambiamenti profondi richiedono tempo e costanza, due caratteristiche preziose da coltivare, soprattutto in una società dominata dalla velocità e dalla gratificazione istantanea dei bisogni come la nostra.

Nessuno vuole perdere tempo, questa è la priorità assoluta per tutti. Ma perdere tempo e sprecare tempo sono due cose diverse. Concentrare l’attenzione solo sui momenti di attività e produttività e rifiutare quelli di attesa rischia di farci perdere il senso di ciò che facciamo e soprattutto di chi siamo.

Saper attendere ci permette di coltivare sogni importanti e ci aiuta a raggiungere risultati duraturi e profondi: un po’ come il bruco che si trasforma in farfalla solo dopo un lento, discreto processo di metamorfosi che passa inevitabilmente attraverso una fase di attesa che è preparatoria all’esplosione della vita. 🦋

In questo video parliamo della capacità di saper aspettare e quanto possa essere importante in una società dove la velocità e la produttività sono considerati dei valori.

Parliamo di FOMO, una forma d’ansia che molti hanno e di cui non sono consapevoli e della differenza tra perdere tempo e sprecare il tempo.

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Il cambiamento

by Romina Rubino 27/03/2021
written by Romina Rubino

Questa settimana vi propongo di leggere “Autobiografia del cambiamento in cinque brevi capitoli” di Portia Nelson.

Si tratta di un racconto che utilizzo spesso durante le terapie per “sfatare il mito” del cambiamento che avviene in modo lineare. Siamo infatti abituati a pensare che il cambiamento sia semplice, progressivo e veloce. Però non è sempre così! Il cambiamento può richiedere tempo e può anche portarci a “ricadere” negli stessi errori finché non impariamo ad evitarli del tutto.

“Autobiografia del cambiamento in cinque brevi capitoli” (Portia Nelson)

I

Cammino per la strada.
C’è una profonda buca nel marciapiede.
Ci cado.
Sono persa… Sono impotente.
Non è colpa mia.
Ci vorrà un’eternità per trovare come uscirne.

II

Cammino per la stessa strada.
C’è una profonda buca nel marciapiede.
Fingo di non vederla.
Ci ricado.
Non riesco a credere di essere nello stesso posto.
Ma non è colpa mia.
Ci vuole ancora molto tempo per uscirne.

III

Cammino per la strada.
C’è una profonda buca nel marciapiede.
Vedo che c’è.
Ci cado ancora… è un’abitudine.
I miei occhi sono aperti.
So dove sono.
E’ colpa mia.
Ne esco immediatamente.

IV

Cammino per la strada.
C’è una profonda buca nel marciapiede.
La aggiro.

V

Cammino per un’altra strada.

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Pensare a se stessi è un atto di altruismo

by Romina Rubino 27/03/2021
written by Romina Rubino

Oggi riflettiamo insieme su questa frase: “Pensare a se stessi è il più grande atto di altruismo che possiamo fare.” Cosa avete pensato mentre la leggevate? Vi è sembrato strano leggere altruismo? Forse sì, perché è comune (erroneamente) pensare che prendersi cura di sé sia un atto di egoismo. Almeno una volta nella vita immagino che abbiate detto “devo diventare più egoista e pensare solo a me”.

Eppure è esattamente il contrario! Vivere una vita non da protagonisti, senza tenere conto di sé e dei propri vissuti ed emozioni, può avvelenare ogni relazione. Finiremo per odiare l’altro perché la sua presenza non ci permette di essere noi stessi. Per questo è meglio dire di no quando non ci va di fare qualcosa… perché, anche se può sembrare paradossale, è proprio quel no che sta proteggendo la vostra relazione!

Dicendo di no siamo davvero noi, protagonisti della nostra vita, che esistiamo nella coppia. Mentre dire di sì per aver paura di dire di no ci porta a scomparire lentamente in una relazione, essere finti e non offrire all’altro la nostra vera presenza ed essenza.

27/03/2021 0 comments
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“Sei brutta, vergognati!”: body shaming e stereotipi sulla bellezza

by Romina Rubino 31/08/2020
written by Romina Rubino

Armine Harutyunyan è una ragazza di 23 anni e di lavoro fa la modella.

Collabora con Gucci che in questi giorni l’ha inserita nella lista delle 100 modelle più sexy del mondo, scatenando un vero e proprio inferno di commenti sessisti e offensivi.

La modella originaria di Yerevan, in Armenia, era già finita al centro dell’attenzione a Settembre 2019 quando ha sfilato a Parigi sempre per Gucci per la famosa Fashion Week.

Mentre la sfilata di Parigi, i cui abiti erano ispirati alle malattie mentali, poteva essere un’occasione per aprire un dibattito su questo tema delicato, è stata invece la comparsa della modella a causare una tempesta mediatica.

“Ma è almeno una donna?”

“Voi ci uscireste fuori a cena?”

“Come si può stare con una così?”

Questi i commenti di uomini, ma anche di moltissime donne, sotto alcune delle sue foto.

La sua colpa? Non essere conforme agli stereotipi di bellezza a cui ci hanno abituati.

Ma davvero la bellezza deve essere fatta per forza e solo da corpi longilinei e statuari e visi dai lineamenti armonici?

Il pregiudizio sulla bellezza e l’offendere l’altro per il suo aspetto fisico non conforme alla “norma” è un fenomeno conosciuto col nome di Body Shaming.
Di questo è stata vittima la modella che, insieme a Gucci, non ha risposto alle provocazioni. In cambio è rimasta per giorni sulle prime pagine di tutti maggiori siti e non solo quelli che si occupano di moda.

Alessandro Michele, attuale direttore creativo di Gucci, sta cercando di cambiare questa idea di bellezza convenzionale, scegliendo modelle “fuori dagli schemi” a cui siamo abituati. Un modo per spingerci a riflettere sul concetto di bellezza e su come valutiamo gli altri e noi stessi.

Il modo in cui trattiamo gli altri infatti, è un riflesso di come trattiamo noi stessi interiormente.
Il body shaming, l’abitudine di criticare se stessi e gli altri per l’aspetto fisico, può portare a un pericoloso circolo vizioso di giudizio e auto-critica.

Hai mai pensato a quanto spesso ti viene detto di cambiare la tua immagine? I giornali ci offrono consigli su come perdere peso in pochi giorni, apparire immediatamente più magri e nascondere le “imperfezioni” senza sapere niente di noi e ancora meno del nostro aspetto fisico.

Valentina Ferragni, sorella dell’influencer Chiara Ferragni, è stata una tra le tante vittime di body shaming su Instagram dove ha risposto alle accuse degli haters (letteralmente “odiatori”, detti anche “leoni da tastiera”) con queste parole:

“Continuo a ricevere messaggi (privati e pubblici) in cui mi si “vieta” di mostrare il mio corpo perché “faccio troppo schifo” – ha scritto sul social – e per decenza pubblica dovrei evitare. Allora manco al mio peggior nemico direi mai cose di questo genere e ovviamente lo si fa solo per far sentire la gente di merd*, per farla sentire piccola e sminuirla; e indovinate chi me l’ha scritto? Guarda caso una ragazza.”

Si tratta di chiari esempi di body shaming, un fenomeno che possiamo trovare ovunque.

Nei telefilm, per esempio, molto spesso i personaggi sovrappeso sono oggetto di battute.

È una delle prime cose che si commenta quando incontriamo una persona che non vedevamo da tempo, o una donna incinta o che ha appena partorito: “È ingrassata!”, “Quanti kili ha preso durante la gravidanza?”.

È diventata la norma giudicare e criticare una persona per il suo corpo.

Il Body shaming si può manifestare in diversi modi infatti:

  • Criticando il tuo aspetto fisico, attraverso giudizi o paragonandoti ad altre persone (per esempio: “Sono così brutta in confronto a lei”, “Vorrei fare l’operazione per cambiare il mio naso”)
  • Criticando l’aspetto fisico degli altri di fronte a loro (per esempio: “Con quelle cosce non troverai mai nessuno”, “Sei troppo magra, sembri malata”)
  • Criticando gli altri alle spalle (per esempio: “Hai visto cosa si è messa quella? Sembra una balena.”, “Se uno è grosso non dovrebbe vestirsi così”)

Non importa in che forma si manifesti, il body shaming ci porta al confronto continuo con l’altro e alla vergogna e alimenta l’idea le persone dovrebbero essere giudicate sopratutto per le loro caratteristiche fisiche.

Che impatto ha questa ossessione per il corpo su di noi? E quali possono essere le conseguenze sugli adolescenti (che notoriamente attraversano una fase delicata nel rapportarsi con i cambiamenti del proprio corpo)?

Questo è un problema che colpisce maggiormente le donne perché culturalmente l’immagine femminile, il corpo soprattutto, è oggetto di commenti di ogni tipo. I giornali per esempio tendono a soffermarsi quasi sempre sui dettagli fisici delle donne famose e non.

Che si tratti della scienziata che ha vinto un premio prestigioso, di una giornalista che presenta un telegiornale o di una vittima di violenza, le notizie che riguardano le donne comprendono molto spesso un commento, positivo o negativo che sia, su come sono vestite o sulla forma del loro fisico.

Nel mio studio sono ormai abituata ad ascoltare le ansie sull’aspetto fisico di ragazze di ogni tipo, convinte di non essere abbastanza, ossessionate dal peso, preoccupate di dover affrontare gli occhi curiosi e giudicanti di amici e parenti che dovranno rivedere.

Si tratta di ragazze e donne comuni, spesso in carriera, intelligenti e con diverse esperienze di vita alle spalle. Eppure tutte hanno in comune questo senso di insicurezza verso il proprio corpo, tutte si sentono in difetto almeno rispetto ad una caratteristica del proprio aspetto fisico.

Come psicologa italiana a Londra, noto che la preoccupazione per l’aspetto fisico è molto più accentuato tra le ragazze italiane. Ho iniziato allora a fare attenzione ai messaggi lanciati in tv (oltre a quelli sui social) e ciò che mi ha colpito guardando qualche trasmissione italiana è lo stereotipo della bellezza. Non c’è diversità, le modelle sono tutte uguali: capelli lunghi, prevalentemente lisci con qualche onda, corpi magrissimi: l’unica forma fisica rappresentata (perché in natura ne esistono diverse!) è solo quella longilinea e con poche forme.

Sugli stereotipi del corpo femminile ci sarebbe molto da scrivere (e mi propongo di farlo prossimamente). C’è un motivo storico per cui dobbiamo non piacerci. C’è un piano di marketing ben studiato per farci sentire sempre in difetto, arricchendo così le tasche di chi vende prodotti “di bellezza” (come se la bellezza si potesse comprare).

Stereotipi che però paghiamo a caro prezzo, non solo in termini generali perché viviamo male, ma anche come società.

Certamente le modelle senza un filo di grasso né di cellulite (apriremo un capitolo a parte sull’invenzione della cellulite come malattia), sono stereotipi, modelli irraggiungibili, per le persone comuni.
Spesso, il confronto di sé con immagini di questo tipo innesca – insieme ad altri fattori – disturbi psicologici anche gravi come la bulimia e l’anoressia.

Da questo tipo di visione deriva l’incalzante crescita dei disturbi alimentari che colpiscono sopratutto le ragazze:

“Tutti i disturbi dell’alimentazione sono più frequenti nella popolazione femminile che in quella maschile: negli studi condotti su popolazioni cliniche, gli uomini rappresentano il 5-10% di tutti i casi di anoressia nervosa, il 10-15% dei casi di bulimia nervosa.

L’incidenza dell’anoressia nervosa è di almeno 8-9 nuovi casi per 100mila persone in un anno tra le donne, mentre per gli uomini è compresa fra 0,02 e 1,4 nuovi casi.

Per quanto riguarda la bulimia nervosa ogni anno si registrano 12 nuovi casi per 100mila persone tra le donne e circa 0,8 nuovi casi per 100.000 persone in un anno tra gli uomini.”

(Fonte: http://www.salute.gov.it/portale/donna/dettaglioContenutiDonna.jsp?lingua=italiano&id=4470&area=Salute%20donna&menu=patologie)

Qui a Londra infatti l’attenzione verso questa tematica è molto forte. Recentemente il sindaco Sadiq Khan ha vietato tutti i manifesti pubblicitari sui mezzi pubblici che minano l’autostima delle persone.

Immagini di modelle magrissime e perfette esercitano una pressione fortissima negativa sulle ragazze sopratutto più giovani perché si conformino alla regola.

Khan ha detto: “Come padre di due adolescenti, sono estremamente preoccupato per questo tipo di pubblicità che sminuisce le persone, in particolare le donne, e le spinge a vergognarsi dei loro corpi”.

Per questo ha fatto rimuovere una pubblicità che per pubblicizzare prodotti dimagranti chiedeva: “Il tuo corpo è pronto per la prova costume?”

Questo tipo di stereotipi sono negativi anche per la popolazione maschile: se da un lato riduce la donna al suo corpo trattandolo come un oggetto, dall’altro innesca nella mente degli uomini dei meccanismi di confronto tra le modelle e le partner della vita reale che – sempre insieme ad altri fattori – possono scatenare frustrazione, insoddisfazione e addirittura crisi nei rapporti di coppia.

Per dirvi quanto seriamente è trattato questo tema qui, il sindaco ha intenzione di affidare a una commissione di vigilanza sulle pubblicità che opererà la censura delle immagini  che promuovono stereotipi  che possono ferire i sentimenti delle donne che girano per Londra.

Vorrei concludere (per ora) con un pezzo del toccante monologo di Vanessa Incontrada, anche lei vittima di Body Shaming:

“A volte vorrei parlare alla Vanessa di 20 anni fa e darle un piccolo consiglio: Vane smetti di voler essere diversa da quello che sei perché tanto la perfezione non esiste.
Io volevo diventare ciò che non sono, tutti mi volevano diversa. Ma tutti chi?
Ho perso tempo a cercare di essere giusta dimenticandomi di essere felice. Se fossi nata negli anni Trenta o Cinquanta quando il modello femminile era morbido sarei stata perfetta, però io vivo nel Duemila e avere le forme è ritenuto sbagliato.”

Nel 2020 essere incoraggiati a sentirsi sbagliati per il proprio corpo non è più tollerabile!

(Il video integrale del Monologo di Vanessa Incontrada)

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Terapia EMDR per lavorare sul trauma

by Romina Rubino 29/01/2019
written by Romina Rubino

L’EMDR (dall’inglese Eye Movement Desensitization and Reprocessing, Desensibilizzazione e Rielaborazione attraverso i movimenti oculari) è un approccio terapeutico strutturato che si usa per il trattamento del trauma e per alleviare lo stress e i disturbi che spesso seguono le esperienze traumatiche.

Quando si usa

L’EMDR nasce come trattamento per il Disturbo Post Traumatico da Stress che segue generalmente, eventi traumatici gravi come abusi, aggressioni, violenze fisiche o psicologiche, incidenti.

Sono molti però i sintomi che possono essere generati o amplificati da un ricordo traumatico non elaborato per il cui trattamento l’EMDR si è rivelato molto efficace: ansia, attacchi di panico, disturbi alimentari, disturbi del sonno, fobie, lutti, malattie oncologiche e stati stressanti che si convertono in disfunzioni fisiche, come quelle sessuali.

Inoltre l’EMDR può essere utile anche  per migliorare le performance in atleti o persone che hanno bisogno di aumentare il loro livello di performance.

Ri-conoscere il trauma

Quando si parla di trauma tendiamo a pensare a grandi catastrofi come incidenti, gravi perdite, abusi sessuali, in realtà possono essere considerate traumatiche tutte le esperienze dolorose non elaborate che, seppur accadute molto tempo fa e quindi ormai passate, continuano a minacciare il nostro benessere presente.

Si tratta di situazioni molto più comuni di quello che potremmo immaginare, come essere stati presi di mira dai compagni di scuola con forme di bullismo, la perdita precoce di una persona cara, o anche l’aver vissuto un periodo di forte difficoltà economica, per citarne solo alcuni esempi.

Capita a tutti nella vita di fare esperienza di situazioni difficili e purtroppo anche molto dolorose, la mente è però equipaggiata per raccogliere emozioni, pensieri, sensazioni corporee (sì, anche il corpo ha una sua memoria!) ed elaborarle in un ricordo integrato con tutti gli altri che conserviamo.
Quando il carico emotivo è troppo però, il cervello fa fatica ad integrare la grande mole di informazioni ricevute tutte insieme velocemente, così nasce un trauma.

È semplice infatti riconoscere se un ricordo è stato traumatico per noi: quando ripensiamo ad una situazione e sentiamo che il nostro corpo si riattiva, che si scatenano dentro di noi intense sensazioni fisiche, abbiamo a che fare con trauma. Dimenticare diventa difficile, il ricordo di quel momento entra come in un cortocircuito che ci ossessiona e il vissuto doloroso si congela dentro di noi rendendo difficile l’elaborazione e generando ansia e sintomi anche molto forti.

Il trauma trasforma il nostro cervello

Per garantirci la sopravvivenza anche nei casi più estremi, il cervello si è dovuto organizzare creando, nel tempo, dei sistemi che ci consentono di rispondere in modo efficace alle situazioni pericolose.

Se, per esempio, mentre siamo in una foresta incontriamo un leone è molto probabile che la visione dell’animale sia preceduta da un fruscio di foglie. Il nostro cervello percepirà che ci potremmo lasciare le penne, sarà invaso dalla paura e farà in modo di evitare che quella situazione possa ripetersi. Come? Creando un’associazione automatica ed inconscia: ogni volta che sento il fruscio delle foglie devo stare allerta perché potrei essere in pericolo di vita.

Questa informazione di importanza vitale non può aspettare i lunghi tempi della parte razionale, per questo viene conservata nella parte inconscia ed automatica del cervello pronta ad entrare in azione al minimo segnale d’allarme. Il messaggio è così prezioso da essere conservato separatamente rispetto agli altri ricordi e resta quindi intoccabile dalla ragione e quindi dal linguaggio.

Come funziona l’EMDR

La chiave per entrare nel cuore del trauma è il corpo e la sua memoria.

Partendo infatti dalle sensazioni fisiche e dalle risposte emotive generate dal ricordo, si utilizzano i movimenti oculari o altre forme di stimolazione alternata destro/sinistra per ricreare la connessione tra quelle parti del cervello che sono state ‘scollegate’ dall’evento traumatico.

Attraverso questa stimolazione bilaterale, mentre il soggetto è concentrato sulle emozioni e sensazioni corporee legate al ricordo si può ricollegare la memoria fino a quel momento bloccata, stimolando nuove connessioni e significati. Dopo poche sedute generalmente si inizia a sperimentare un miglioramento della sintomatologia e le connotazioni negative legate al ricordo si allentano, per poi svanire, sostituite da sensazioni neutre o addirittura positive.

L’utilizzo del trattamento sia singolo, che integrato all’interno di un percorso terapeutico tradizionale, può fornire un adeguato sostegno e si rivela in molti casi di grande aiuto.

(La foto mostra l’iperattivazione del cervello di una donna con Disturbo Post Traumatico da Stress prima e dopo un trattamento di 4 sedute da 90 minuti di EMDR.)

Per maggiori informazioni: EMDR Italia, EMDR UK & Ireland, EMDR Europe.

29/01/2019 0 comments
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Cyberbullismo. I moderni bulli agiscono online.

by Romina Rubino 08/02/2017
written by Romina Rubino

Il cyberbullismo, o bullismo online, è un attacco profondamente offensivo e ripetuto nel tempo dove chi attacca si nasconde dietro uno schermo e una tastiera. Il luogo dell’aggressione è quindi “la rete”, il web, che data la sua natura, contribuisce a garantire al molestatore una forma di anonimato e e quindi di irreperibilità.

Queste due caratteristiche finiscono per creare un effetto psicologico di abbassamento degli standard morali ed etici cui invece facciamo implicitamente riferimento quando abbiamo un confronto diretto con l’altro.
Il non dover guardare in faccia e negli occhi la vittima rende molto più difficoltoso quel contatto empatico che invece dal vivo ci consente di percepire anche solo per un attimo quello che l’altro sta provando in quel momento.
Il risultato è un crescendo di aggressività e violenza che viene rovesciata a valanga e in massa sulla vittima di turno.

Le conseguenze di questo tipo di fenomeno possono essere devastanti e mostrare i loro effetti distruttivi non solo sulla vittima ma indirettamente anche sull’aggressore.
La realtà virtuale, infatti, crea nelle nostre menti una sorta di dimensione parallela in cui ciò che accade, non potendo collocarsi in uno spazio concreto, finisce in un limbo tra reale e non-reale: ciò che accade all’interno di uno spazio virtuale è come se non accadesse realmente sino in fondo.
Per lo stesso principio giocando ad un videogioco possiamo permetterci di uccidere virtualmente altre persone in quanto l’azione si svolge in una dimensione che è appunto virtuale e quindi non reale.

I social network si fondano però sul paradosso di trovarsi sì in una realtà virtuale, ma i cui attori, lungi dall’essere personaggi inanimati inventati per un videogioco, sono invece persone reali, con emozioni e vissuti! Quindi anche chi nella propria quotidianità non farebbe male ad una mosca può ritrovarsi a sfogare le proprie frustrazioni sul web, vomitando continuamente lamentele e commenti aggressivi rivolti al capro espiatorio di turno.
Qualcosa di simile a quello che accadde tempo fa a Miss Italia e che ho commentato in un precedente articolo.

Le conseguenze peggiori però sono più spesso a carico della vittima. Si tratta in genere di persone giovanissime che ormai partecipano attivamente alle dinamiche del mondo virtuale. Spesso sono adolescenti che stanno già combattendo le proprie battaglie per la formazione di una identità ancora fragile ed incerta.
L’umiliazione pubblica, talvolta nata da una vicenda reale ma altre volte completamente immotivata, è capace di scuotere profondamente le menti e di travolgere come uno tsunami le esistenze di ciascuno.   Il dolore che si prova può essere lancinante; la vergogna, la rabbia, la paura possono diventare così forti da rovinare completamente la vita di una persona.

Quando la vittima si trova anche in una fase delicata della vita, come l’adolescenza è, il peso del fenomeno può diventare così insopportabile che qualcuno, pur di sottrarsi a questa inevitabile e ripetuta violenza di gruppo, finisce per pensare o agire un suicidio. [Ho condiviso qualche riflessione sul suicidio qui e degli effetti della notizia di un suicidio qui]

Un toccante discorso di Monica Lewinsky  (che trovi qui sottotitolato in italiano) spiega quale possa essere “Il prezzo della vergogna” che paga chi è vittima di fenomeni di cyberbullismo: “La crudeltà verso gli altri non è una novità, ma online la vergogna tecnologica viene amplificata, senza limiti e permanentemente accessibile.”

Se nel mondo reale ci sono confini e quindi anche luoghi reali da cui potersi anche temporaneamente allontanare senza che nessuno sappia il nostro passato, sul web siamo continuamente esposti, sempre raggiungibili, perennemente vulnerabili. Ciascuno di noi può finire nel mirino dei cyberbulli e ciascuno di noi può trasformarsi in un molestatore seriale.

Di un simile linciaggio è stata vittima qualche giorno fa una giovane ragazza, Greta Menchi, la cui unica colpa è stata quella di essere stata convocata come giuria a San Remo… nell’immagine si leggono i commenti, chiaro esempio di cyberbullismo.

Ciò che colpisce davvero è la violenza, la foga, la completa assenza di contenuti razionali e il dominio di un’emotività fuori controllo e pericolosamente in cerca di un bersaglio.
Questo mondo in cui viviamo però è un mondo che ogni giorno contribuiamo a costruire, come l’oceano che in fondo è fatto da tante piccole gocce.

Il contatto con le nostre emozioni e la consapevolezza di cosa stiamo provando momento per momento sono la chiave che ci può aiutare non solo ad esprimere in modo costruttivo i nostri vissuti, ma anche ad empatizzare con la vittima di turno.

Quando ci troviamo di fronte a fenomeni di questo tipo, partecipare attivamente anche solo mostrando solidarietà alla vittima con un semplice commento può essere una piccola grande azione che magari risveglia il senso etico di chi attacca e comunque fa sentire chi è bersaglio della violenza meno solo.

Molto spesso basta poco per cambiare il mondo…

Questo è il link  al post pubblico di Greta Menchi per chi volesse lasciare un commento solidale.

08/02/2017 0 comments
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La libertà di potersi contraddire

by Romina Rubino 03/08/2016
written by Romina Rubino

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Ciascuno di noi durante il corso della propria vita costruisce e custodisce il proprio decalogo di comandamenti da seguire, quei pensieri e regole interne che implicitamente ci guidano ogni giorno nelle piccole e grandi scelte cui la vita ci sottopone.

Fin da piccoli impariamo a sperimentare, ad interagire con il mondo per osservarne le reazioni e trarre conclusioni sul suo funzionamento. È questo il processo istintivo che guida i bambini ad esempio a lasciar cadere qualcosa a terra per sperimentare gli effetti di quella caduta e registrare quale reazione si produce in conseguenza di quella specifica azione.
Creiamo cioè un insieme di regole che ci aiutano a predire il mondo e le persone che ci circondano.

Seguiamo queste regole, spesso inconsapevolmente, nutrendo la nostra mente e allungando la lista ogni giorno.
Guardando un film, leggendo un articolo o un libro, ascoltando una canzone, un programma televisivo, o andando ad una mostra nutriamo la nostra mente, allunghiamo la lista delle regole implicite che guidano il nostro cammino, ne confermiamo alcune e, più raramente, modifichiamo altre. Sono queste idee che ci rendono chi siamo, che ci dicono cosa è giusto o sbagliato, per cosa valga la pena combattere e cosa no, quali sono i comportamenti concessi, quali quelli da incoraggiare e quali quelli inaccettabili.
Costruiamo insomma una teoria interna e personalissima che ci aiuta a leggere noi stessi e ciò che ci circonda, un binario che spesso seguiamo ciecamente e con fiducia perché frutto di un processo che ci accompagna lungo tutto il corso della nostra vita.

Come tutto ciò che è prezioso, conserviamo “le tavole” con i nostri personali comandamenti nelle stanze più profonde della mente, perché possano essere tenute al riparo dal vento del cambiamento, persino dal nostro stesso sguardo.
Esiste una sorta di meccanismo di auto-conservazione di queste regole interne infatti, che ci spinge alla ricerca costante di conferme dei nostri valori, di quelle credenze su cui abbiamo fondato la nostra vita sino a quel momento. Cambiare quelle convinzioni, anche semplicemente metterle in discussione per scoprire se sono ancora valide, può essere un processo difficile e doloroso, poiché la posta in gioco è il binario stesso su cui abbiamo viaggiato sino ad oggi. Ad essere messo in discussione è il modo in cui abbiamo vissuto ed in cui viviamo.

Aprire la propria mente al nuovo può essere particolarmente faticoso in una società dove “ruota tutto intorno a te”: abbiamo liste di canali televisivi e playlist di musica personalizzati, abbiamo continui suggerimenti di argomenti “simili” a quello che abbiamo già visualizzato, abbiamo pagine Facebook ricche di contenuti che noi stessi scegliamo e ci uniamo a gruppi che la pensano esattamente come noi.

freud change
Questo sistema però, seppur comodo e rassicurante, ci fa vivere nell’illusione che esista un’unica linea di pensiero su ogni argomento e che la maggior parte della gente (quella che poi definiamo normale) la pensi esattamente come noi. Ci sembra impossibile che altri, quelli che giocano nella squadra avversaria per definizione, ragionino in modo diverso, forse opposto al nostro. Siamo sconcertati ed increduli di come sia possibile che alcuni vedano le cose in un modo talmente diverso, che subito cataloghiamo come folle.
Siamo poco allenati a rapportarci con il nuovo e abbiamo sviluppato la tendenza difensiva a girare lo sguardo dall’altra parte per conservare intatto il nostro tempio fatto di credenze antiche e valori incontestabili.

Quando un elemento di novità, un pensiero alternativo riesce a irrompere oltre le mura dietro cui siamo barricati ci irrigidiamo e, sentendoci attaccati, finiamo per costruire muri sempre più alti, sempre più spessi pur di non rischiare di ascoltare qualcosa che potrebbe mettere in dubbio i nostri valori ormai dati per scontato.
Si tratta di un fenomeno molto più comune di quanto possiamo credere. Basta ascoltare la conversazione tra due persone appartenenti a gruppi politici diversi ad esempio, o anche scorrere le liste infinite di commenti al vetriolo sotto un articolo che solleva un tema specifico.
Perché diventa così importante convincere l’altro che abbiamo ragione?
Perché arriviamo persino a sentire di dover offendere e ferire chi sta esprimendo un punto di vista differente?
Perché affermare la nostra idea diventa una priorità talmente forte che a volte cadiamo nel paradosso di augurare il male a qualcuno nel tentativo di difendere un’idea religiosa o un ideale volto alla costruzione di un mondo migliore?

Io credo che esista una profonda differenza tra esprimere il proprio punto di vista e aver bisogno di affermare la propria visione del mondo. Ogni volta che ci scopriamo “accaniti” nell’affermare un concetto o esprimere un’opinione, forse è il caso di fermarci per chiederci perché abbiamo bisogno di convincere l’altro di aver ragione. Che importanza ha per noi quel tema e che senso ha impiegare così tante energie nel difendere quell’ideale.

La capacità di cambiare punto di vista, di cambiare la prospettiva con cui guardiamo il mondo, di metterci nei panni dell’altro è forse il più grande segno di intelligenza di cui disponiamo, poiché implica quella flessibilità mentale che è frutto di cultura, di ampiezza di orizzonti, di molteplicità di visioni.
Cambiare sguardo significa aprire i propri occhi, scoprire che il mondo può essere anche molto diverso da come lo abbiamo conosciuto finora. Significa rischiare, rischiare magari di scoprire che il tuo Dio, i tuoi dei, non sono gli unici, che esistono persone, esattamente come noi, che magari considerano buono quello che abbiamo sempre considerato cattivo.
Significa comprendere che se la vita è come una partita a scacchi non possiamo limitarci a contemplare solo le mosse che si possono muovere dalla nostra parte del tavolo. Se vogliamo giocare una partita vincente dobbiamo girare la scacchiera e cercare di vedere cosa vede l’amico con cui stiamo giocando.

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Ogni volta che leggo o sento dire che “c’è bisogno di coerenza” mi chiedo cosa si intenda con questa espressione, perché ho il sospetto che sia un modo per dire che non si può cambiare idea, che non si possono modificare i propri pensieri. Ho il sospetto che sia un modo per giustificare il proprio, seppur comprensibile, timore di andare dall’altra parte del tavolo a vedere come appare il mondo da quella prospettiva.
Forse può sembrare spaventoso, destabilizzante, ma credo che siamo fatti di opposti, di contrari e di pedine bianche e nere che possiamo scegliere di muovere ogni volta in modo diverso.
Desiderio e Paura sono la stessa cosa e ogni volta che scegliamo di dare voce al primo, dovremo avere il coraggio di ascoltare anche l’altra.
Crescere, dal mio punto di vista, implica inevitabilmente cambiare visioni del mondo, allargare l’ampiezza della propria visione, aggiungere punti di vista diversi. Per questo mi riservo sempre il diritto di contraddirmi in ogni momento.

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Psicologi italiani per Parigi. Dare un senso al dolore.

by Romina Rubino 19/11/2015
written by Romina Rubino

Parigi

Finora sono rimasta in silenzio di fronte allo sgomento dei recenti avvenimenti di Parigi, perché ritengo che le parole, quando non sono precedute da una riflessione, non solo non servano ma possano facilmente diventare velenose, pericolose forse quanto i fatti.

Silenzio.
Perché il silenzio, quando è riflessione e non indifferenza, resta per me la più alta forma di rispetto, l’obiettivo più difficile da conseguire in un tempo in cui vomitiamo continuamente e pubblicamente una sconfinata brodaglia informe di emozioni non elaborate, non pensate.
Nel mio silenzio ho raccolto tutte le mie emozioni, lo sgomento, la paura, la confusione, la rabbia, la frustrazione, il disgusto, lo sconforto, la disperazione, la tristezza. Ho cercato di tenerle tutte dentro di me, tutte insieme, in attesa che come un puzzle si ricomponessero in un quadro coerente, in un’unica grande immagine di speranza.

Quando qualche giorno dopo sono salita su un aereo tutte le tessere si sono mischiate tra loro e ho avuto paura, perché siamo sempre spaventati da ciò che non riusciamo o non possiamo comprendere. Le ho però tenute ancora, in silenzio, tutte mischiate dentro di me perché non erano ancora mature per essere espresse, perché il quadro non era ancora completo.

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Oggi sono qui a scrivere pensando ai fatti di Parigi, alla natura dell’uomo, alla vita e alla morte, a quale sia il senso delle nostre vite… ho ancora tante domande e credo che la più grande sia “Perché?”.
E se adesso vi aspettate l’ennesima spiegazione, mi spiace molto deludervi ma io non ce l’ho.
Ho rotto il mio silenzio solo perché in questo turbinio di inquietudine generale i pezzi del mio puzzle si sono in qualche modo riuniti… hanno trovato un senso. Non nelle parole ma nei fatti.

Il sito Psiche.org ha lanciato l’interessante iniziativa “Act for Paris” a cui partecipo e che continua a raccogliere le adesioni di psicologi e psicoterapeuti italiani che a titolo gratuito offrono la propria disponibilità a fornire un sostegno psicologico online per gli italiani che risiedono a Parigi e che stanno combattendo in questo momento con le loro paure, che stanno cercando di ricostruire il loro puzzle.

Personalmente penso che se c’è qualcosa di sensato in tutto questo caos è la speranza in un mondo migliore; se eventi come quelli di Parigi possono in qualche modo essere onorati e rispettati, il modo migliore per me è restare in silenzio e agire in modo costruttivo.
Che per ogni vittima ci possa essere una ri-nascita in ciascuno di noi.

Se l’odio di poche persone può generare altro odio così grande, pensiamo cosa può accadere se ognuno di noi mette a disposizione una piccola parte di sé, ciascuno secondo ciò che può, per creare un’ondata di sana, alta umanità.

parigi 3

Se sei uno psicologo o uno psicoterapeuta abilitato e sei interessato al progetto, puoi offrire il tuo aiuto come volontario. Se sei un cittadino italiano e conosci persone italiane che vivono a Parigi puoi segnalare l’iniziativa!

(Le foto che trovate nell’articolo sono state scattate da me qualche anno fa. Le ho scelte per rappresentare la grande dignità, libertà e vitalità di una città come Parigi che per me rappresenta tante cose ma che non riesco proprio ad associare ad immagini di morte e lutto. È il mio modo per rendere rispetto a  questa città e a chi le dà vita.)

19/11/2015 0 comments
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Tutti contro uno: oggi tocca a Miss Italia

by Romina Rubino 22/09/2015
written by Romina Rubino

 Orwell

Non so voi, ma la mia bacheca è piena di post di scherno contro la gaffe della neo-eletta Miss Italia.

La guerra, mondiale o no che sia, non è certo una cosa su cui si possono ammettere sviste, sono d’accordo.

Certo però fa riflettere il fenomeno che si scatena in circostanze come questa. Un po’ mi spaventa il sadismo con cui in massa ci scagliamo pubblicamente contro una 18enne che si ritrova a dover rispondere a una domanda inaspettata, in prima serata, in un contesto dove quello che ti aspetti di dover mettere in mostra non sono certo le tue competenze!

Non è un modo per difendere ciò che ha detto (anche perchè ha spiegato successivamente da dove è nata la gaffe), è però un modo per riflettere su come questa vita “social” non è poi molto sociale, empatica, comprensiva.

Mi sembra che siamo tutti pronti a scovare lo sventurato del giorno che ha fatto l’errore fatale di perdere il controllo per un attimo ed ecco che si ritrova alla pubblica gogna e gli aguzzini siamo proprio tutti noi!
Johnny Depp perchè ha messo su qualche kg e si permette pure di presentarsi in pubblico (!), la presentatrice perchè perde l’equilibrio e cade da tacchi vertiginosi, l’attrice pizzicata in costume con la cellulite…  ed ecco che ci ritroviamo tutti contro uno, tutti seduti comodamente a casa nostra, illusi di essere protetti dietro ad uno schermo che forse ci rende un po’ meno umani, persone peggiori di quello che realmente siamo.

Poi davvero ci meravigliamo di fronte al bullismo on-line e ci indigniamo quando un adolescente si suicida per questo? E da dove avranno mai imparato questi brutti ragazzi di oggi?

Ogni giorno, anche e sopratutto con le nostre azioni più piccole, contribuiamo a costruire un certo tipo di mondo.
Anche quando ci sembra di fare una cosa di poco conto come pubblicare qualche post su un social, chiediamoci cosa stiamo facendo, di che tipo di messaggio ci stiamo facendo portatori e se il mondo che stiamo contribuendo a costruire è un mondo vivibile per noi e per i nostri eventuali figli.
Perchè questo fenomeno della “pubblica gogna” è un po’ una ruota e se oggi ci è salita una perfetta sconosciuta, domani potrebbe toccare a noi.

22/09/2015 0 comments
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Romina Rubino Psicoterapeuta Italiana a Londra
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Membro BACP. Riceve a Londra. Email: rominarubino@yahoo.it

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