Romina Rubino
Psicologa, Psicoterapeuta Psicoanalista italiana a Londra
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La grande bugia: la “Teoria gender”

by Romina Rubino 07/09/2015
written by Romina Rubino

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“La realtà dell’altro non è in ciò che egli ti rivela, ma in ciò che non può rivelarti.
Perciò, se vuoi capire l’altro, non ascoltare ciò che egli ti dice,
ma piuttosto ciò che egli non dice.”
K. Gibran

 

Con l’avvicinarsi dell’apertura delle scuole sento l’esigenza di contribuire anche io a fare un po’ di chiarezza rispetto a quello che definirei “il fenomeno gender”.
Già numerosi colleghi infatti si sono dedicati alla questione per cercare di mettere un po’ di ordine tra le idee confuse e volutamente distorte che ormai circolano pericolosamente su internet da qualche tempo.

Nota come “teoria gender”, si è diffusa l’assurda convinzione che la scuola, il Ministero della Salute e i professionisti della salute mentale siano improvvisamente e tutti insieme impazziti e si siano coalizzati per inculcare nelle menti dei bambini idee come “cambiare sesso, masturbarsi, visionare materiale pornografico”, distorcendo irrimediabilmente le loro menti.
Letto così sembra davvero strano in effetti, potremmo dire che c’è chiaramente qualcosa che suona almeno come insolito. Ma come è possibile che tante persone, anche di buon senso, si siano lasciate contagiare da queste false informazioni, contribuendo alla diffusione di quella che è ormai diventata un’ondata di allarmismo?

Probabilmente questo fenomeno ha trovato grande diffusione perché l’oggetto della discussione tocca temi con cui la nostra società non ha ancora fatto del tutto i conti come la sessualità, ma soprattutto perché la questione riguarda il tema delicatissimo della protezione e della corretta educazione dei figli, che richiama fantasmi e paure ataviche come quella di non essere dei genitori sufficientemente buoni.

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Mi sembra necessario fare chiarezza sui fatti, su cosa cioè è accaduto.

La cosiddetta “Teoria gender” è un’invenzione, una bufala, una bugia!
Psicologi, psicoterapeuti, sociologi, professionisti della formazione e dell’educazione, insomma, esperti del settore non fanno altro che dichiararlo e scriverlo a chiare lettere ovunque. Eppure continuano a fioccare post su Facebook creati probabilmente da sconosciuti che diffondendo falsità, incitano i genitori a difendere i loro figli dalla scuola (!) luogo deputato alla formazione e all’educazione.
Ma le bugie che “funzionano” e cioè che trovano facile diffusione tra chi non ha voglia di approfondire, sono quelle che partono da una realtà sulla quale vengono costruite delle falsità, tali per cui l’informazione che ne emerge alla fine è completamente distorta.

La grande bugia intitolata “teoria gender” nasce da una distorsione appunto delle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sui Corsi di educazione emotiva, affettiva e sessuale che sono già attivi nelle scuole e che sono stati implementati nel ddl “Buona scuola”.
Questi corsi educativi, lungi dall’essere “lezioni di sesso” con tanto di dimostrazioni e supporti pornografici, hanno invece lo scopo di educare bambini ed adolescenti all’affettività e alla sessualità, facendo chiarezza su questi temi attraverso un’informazione corretta e scientifica.
Non mi dilungherò sui dettagli e sul confronto tra la verità e le bugie diffuse, in quanto numerosi colleghi hanno già trattato questi aspetti in modo egregio (lascerò i link di alcuni interessanti articoli alla fine).
Vorrei invece condividere alcune riflessioni sui temi implicati in questo strano fenomeno.

Il primo riguarda l’“educazione sessuale”, l’aspetto probabilmente più controverso e che ha suscitato il maggior clamore e anche la maggior confusione. Ma perché?
La sessualità ed il piacere ad essa collegato sono aspetti normali della vita di ogni individuo sano. Sembra questa un’affermazione inutile e scontata e invece sento proprio l’esigenza di sottolinearla, poiché a dispetto della sempre più tecnologica modernità in cui siamo immersi, la sessualità resta purtroppo ancora un argomento di cui è meglio non parlare: un tabù.
Così lo definì Freud agli inizi del ‘900 e, forse anche con la complicità di una certa cultura che definirei di integralismo religioso, sembra che a distanza di più di un secolo le cose non siano del tutto cambiate.

Esiste ancora, infatti, una parte della popolazione che associa il sesso e la sessualità a qualcosa di “sporco”, qualcosa di cui vergognarsi, di cui essere imbarazzati e quindi da nascondere.
Insomma, non se ne deve parlare. Come se non parlando di un argomento, rendendolo tabù appunto, questo scomparisse come per magia insieme a tutte le sue implicazioni.

Invece quello che accade nella realtà è che, spinti da una curiosità che è innata, naturale, spontanea i ragazzi cercano di scoprire, di informarsi con i mezzi che hanno a disposizione su vari temi, tra cui anche la sessualità. Da qui una recente indagine che ci rivela come le principali fonti di informazione da cui gli adolescenti attingono per informarsi sulla sessualità sono gli amici, i mass media e ovviamente internet e solo in ultima posizione troviamo la famiglia.

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Come vorresti che i tuoi figli fossero informati rispetto alla sessualità?
Attraverso dei corsi di educazione sessuale scolastica tenuti da professionisti del settore, esperti con strumenti idonei e pensati per le diverse fasce di età, insegnanti formati e psicologi con competenze nell’ambito della psicologia dello sviluppo?
O ritieni più idoneo che tuo figlio si informi da solo su internet, tra un sito pornografico ed un consiglio di un coetaneo che probabilmente ne sa meno di lui? E che tipo di immagine della sessualità e della figura della donna viene veicolata oggi su internet?
Direi un’immagine falsata, finta, irreale, distorta, insana, irrispettosa.

Come sottolinea l’OMS i problemi legati alla disinformazione in ambito sessuale sono numerosi e di una certa gravità:
“La Regione Europea dell’OMS si trova di fronte a numerose sfide riguardanti la salute sessuale: i tassi crescenti dell’HIV e di altre infezioni sessualmente trasmesse (IST), le gravidanze indesiderate in adolescenza e la violenza sessuale, solo per citarne alcune. Bambine e bambini, ragazze e ragazzi sono determinanti per il miglioramento della salute sessuale generale. Per maturare un atteggiamento positivo e responsabile verso la sessualità, essi hanno bisogno di conoscerla sia nei suoi aspetti di rischio che di arricchimento. In questo modo saranno messi in grado di agire responsabilmente non solo verso se stessi ma anche verso gli altri nella società in cui vivono.”

Ignoranza e disinformazione sono inoltre alla base di fenomeni come discriminazione e bullismo, perché tutto ciò che non conosciamo è automaticamente categorizzato come “altro da noi”, “diverso” e quindi pericoloso.
La strategia che si propone di adottare nelle scuola ha come obiettivo quello di favorire una cultura del rispetto delle differenze che è alla base di ogni società civile!
Insegnare ai bambini che viviamo in un mondo fatto da tante persone simili ma diverse, ciascuna speciale per la propria soggettività significa lavorare per la costruzione di un mondo migliore.
Insegnare che si può essere alti, bassi, magri o paffuti, maschi o femmine, omo o eterosessuali, con le orecchie a sventola o col naso pronunciato, coi capelli rossi, biondi o scuri, con la pelle bianca o nera, significa creare un buon terreno dove ciascuno potrà crescere semplicemente essendo se stesso, senza doversi vergognare di come la natura l’ha fatto, senza doversi sentire a disagio per ciò che sente dentro di sé.
E significa anche che questa società non accetta fenomeni di discriminazione di alcun tipo, in quanto rispettosa dell’altro anche se, o proprio perché diverso.

Non si tratta di “far diventare omosessuali tutti i bambini” (!) ma di costruire un ambiente dove bambini e adolescenti possano trovare uno spazio di ascolto accogliente e sereno dove depositare le proprie curiosità, i dubbi, le domande; uno spazio abitato da adulti competenti e pronti a rispondere con affettività e preparazione anche alle domande che riguardano l’orientamento sessuale.

Può creare qualche difficoltà un figlio che fa coming out, che dichiara cioè di essere omosessuale, come può creare sofferenza un figlio che magari non vuole studiare per proseguire una professione che si tramanda da generazioni nella propria famiglia, ad esempio. Ma quando questo accade è un diritto di quel ragazzo/a essere ciò che sente, sviluppare se stesso per ciò che è senza essere discriminato.
Ed è un nostro dovere contribuire alla costruzione di un ambiente e di una società dove questo ragazzo, magari nostro figlio, non debba sentirsi malato, sbagliato e quindi emarginato ed escluso solo perché segue se stesso.

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Quando i bambini sono disinformati, diseducati alla diversità, all’alterità che ciascuno di noi in qualche modo rappresenta per l’altro, si finisce in una società in cui le minoranze divengono vittime di bullismo e di discriminazione, società in cui non importa più chi sei, qual è la tua storia, quanti passi hai percorso o quanto hai sofferto, ma in cui vieni giudicato solo perché sei donna (e quindi incapace), o sei nero (e quindi inferiore), o sei piccolo (e quindi stupido)…

I bambini a cui oggi qualcuno vorrebbe sottrarre il diritto ad una corretta educazione sessuale, emotiva ed affettiva, saranno i bulli di domani, vittime di una disinformazione causata dai genitori che oggi sono disinformati e scettici forse proprio perché a loro volta non hanno ricevuto idonea informazione ed educazione sul tema della sessualità e della parità dei diritti.

Nell’informazione (persino quella sulla sessualità!) non c’è nulla di sbagliato, perché se c’è qualcosa che crea danno, malessere, o nevrosi (per dirla alla Freud) è ciò di cui non si può parlare, che resta chiuso, nascosto, inespresso.
Spesso mi sembra che i dubbi e le perplessità suscitate da taluni rispetto al tema dell’educazione affettiva e sessuale nelle scuole siano dettati più da una carenza personale, e cioè che questa onda di allarmismo abbia avuto origine da persone che evidentemente non hanno avuto occasione di sviluppare un rapporto sano ed equilibrato con la propria sessualità e che per questo, spero almeno in buonafede, trasformino in “abominio” quella che è semplicemente una corretta e sana educazione alla civiltà.

Alla base della salute mentale (nostra e quindi anche dei nostri figli) c’è la parola. Dare parole alle emozioni, alle sensazioni, alle domande, fornire informazioni e uno spazio di ascolto accogliente e competente non è mai sbagliato ed è anzi fonte di arricchimento e segno di salute mentale per il singolo e di civiltà per il sociale.

ARTICOLI DI APPROFONDIMENTO:

Standard per l’educazione sessuale in Europa
Educazione sessuale nelle scuole: no gender, no party
Teoria gender a scuola? Solo bugie.
Scontro sulla teoria del gender.
Di che gender stiamo parlando?
Educazione sessuale e ideologia gender, falsità che provocano allarmismo.
Lezioni gender. Cosa succede a scuola a settembre
L’ideologia gender e l’ortopedia del desiderio.
Gender: da oggi nelle scuole? Evento a Milano il 14 Settembre

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Inside out. L’elogio delle emozioni.

by Romina Rubino 14/08/2015
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Le emozioni ricoprono un ruolo fondamentale nelle nostre vite, guidano la percezione del mondo e partecipano attivamente alla costruzione della memoria colorando i nostri ricordi più importanti.
È noto infatti che le informazioni memorizzate “emotivamente”, accompagnate cioè anche da una carica emotiva, si fissano meglio nella nostra mente con il risultato che riusciamo a ricordare quegli eventi più facilmente.

Ma l’importanza delle emozioni per una buona salute mentale è una scoperta relativamente recente. Ancora oggi infatti capita di rintracciare i retaggi di quella visione predominante nel pensiero occidentale dei primi del ‘900 che concepiva le emozioni come una fastidiosa interferenza al tanto agognato pensiero razionale.
Prevaleva infatti, in quell’epoca ancora non troppo lontana, l’idea che le emozioni potessero offuscare una visione oggettiva del mondo, interferendo con quello che invece era definito il “pensiero scientifico”, cioè con la verità.

Col passare degli anni e grazie alle numerose ricerche scientifiche tale visione si è completamente capovolta, rivelando invece la funzione fondamentale che le emozioni rivestono nei processi di percezione ed organizzazione delle informazioni. Numerose ricerche hanno dimostrato infatti come l’umore (cioè l’emozione prevalente in un preciso momento) influisca non solo su come percepiamo ciò che ci accade ma anche su cosa ricordiamo. Sembra infatti che siamo più propensi a ricordare eventi ed informazioni che sono in sintonia col nostro umore, per cui se siamo tristi avremo una tendenza a richiamare dalla memoria una serie di circostanze tristi, mentre quando siamo felici tenderemo a focalizzarci sui momenti felici del nostro passato.

Insomma, sembra tutta una questione di colori… almeno in questo modo hanno voluto metterla gli autori del bellissimo ed emozionante film della Disney-Pixar “Inside out”, in uscita a breve nelle sale italiane.

Il film ha come protagoniste proprio le 5 emozioni di base Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura, Disgusto che si contendono alternativamente la guida della mente della giovane protagonista, una ragazza di 11 anni alle prese con un periodo particolarmente difficile della propria vita: il passaggio alla pubertà.

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L’aspetto cruciale che il film affronta in modo egregio e particolarmente divertente è appunto l’importanza del contatto con le emozioni: quella capacità cioè di riconoscere e rispettare lo stato d’animo  prevalente in ogni momento.
Le emozioni lavorano intensamente dentro di noi ma anche fuori, apportando un grosso contributo alla formazione delle relazioni sociali.
Gli studi mostrano infatti come la nostra identità è definita da specifiche emozioni, che modellano ciò che percepiamo e come esprimiamo noi stessi nel mondo, evocando risposte anche negli altri. La rabbia ad esempio, come è mostrato in numerosi studi, ci mobilita nel riconoscere meglio le situazioni di ingiustizia e ci rende particolarmente attivi nel cercare soluzioni per porvi rimedio.

Ma la vera protagonista del film è Tristezza, un’emozione che troppo spesso tendiamo ad evitare, che siamo abituati a mettere a tacere senza ascoltare le sue ragioni.
Spinti forse da una tendenza anche culturale che sembra dettarci il comando perentorio “sii felice”, dimentichiamo che anche la tristezza ha una sua funzione, un ruolo. Quest’emozione spesso bistrattata fa parte integrante del “corredo emozionale” di cui siamo dotati alla nascita ed in fondo è proprio quando siamo tristi che ci fermiamo a riflettere su cosa ci sta accadendo e partiamo alla ricerca delle cause di questo senso di malessere.
Potremmo dire che se la gioia e la rabbia sono le emozioni dell’azione, la tristezza è l’emozione della riflessione. Perché quando senti che Tristezza prende il comando, comprendi che è giunto il tempo di fermarsi e sentire, dialogare con te.
Forse siamo portati però ad associare la tristezza ad uno stato caratterizzato da inattività, passività, da assenza di azioni utili. Nel film, ma anche nelle nostre vite, la tristezza invece sa essere anche azione: spinge le persone a stare più a contatto con se stesse quindi anche tra loro, per questo è soprattutto quando questa emozione prevale che le persone si uniscono, si stanno accanto.

Le emozioni  letteralmente ci guidano su un cammino che altrimenti percorreremmo come ciechi; si tratta di un processo che illumina il nostro presente ma anche il nostro passato e che pervade tutta la nostra identità.
“Inside out”, con un approccio ironico ed emozionante allo stesso tempo, offre un interessante spunto di riflessione sulla nostra vita emotiva, ci riavvicina e riappacifica con tutte le nostre emozioni, rivendicandone l’importanza.

 

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Non rimandare a domani cio’ che puoi fare oggi: perche’ procrastiniamo?

by Romina Rubino 26/06/2015
written by Romina Rubino

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È strano come i detti che i nostri nonni ci hanno tramandato possano riscoprirsi utili ancora oggi, rivelando una saggezza che evidentemente ha attraversato se non tutta l’umanità una buona parte di essa. Procrastinare, la tendenza cioè a rimandare ad un fantomatico “domani” i nostri impegni, è un’inclinazione a cui tutti siamo soggetti e da cui dobbiamo imparare a difenderci.

Spesso quando parliamo di qualcuno che “procrastina”, che rimanda continuamente le proprie scadenze, abbiamo in mente una persona pigra, uno scansafatiche che non ha abbastanza voglia di fare. Al contrario, gli studi dimostrano che le persone con questa tendenza sono invece quelle più severe con se stesse, più attente al giudizio che gli altri hanno di loro: in questo tipo di persone prevale il timore di sbagliare, il desiderio idealizzato di svolgere qualsiasi compito in modo perfetto. È questa la tesi di J. Ferrari, docente di Psicologia della De Paul University, che dopo aver dedicato gran parte della sua carriera allo studio del fenomeno, ha pubblicato un libro dal titolo “Stai ancora rimandando qualcosa? Manuale per non aver rimpianti su ciò che va fatto”.

Secondo gli studiosi quindi i “procrastinatori seriali”, lungi dall’essere individui pigri e poco attivi, sono invece quelli che definiremmo dei “perfezionisti”, soggetti cioè che coltivano la segreta fantasia di svolgere ogni compito in modo impeccabile, perfetto. In fondo, finché una cosa resta incompiuta è potenzialmente perfetta e finché non la realizziamo concretamente non potremo mai essere giudicati per aver fatto un cattivo lavoro. Quante volte preferiamo restare fermi, quante volte non ci permettiamo neanche di provare a realizzare un sogno per paura di scoprirci imperfetti, limitati, semplici e umani, come tutti gli altri?

Secondo gli psicologi americani infatti, la tendenza a procrastinare è più forte nei “perfezionisti”, che tendono a dare il meglio di sé, ad ottenere il massimo della concentrazione solo quando la scadenza della consegna di un lavoro è davvero imminente. In questi casi, qualora il compito dovesse avere qualche carenza, potremo imputarne la causa alla mancanza di tempo a disposizione più che ad un nostro limite personale. Ma, come sottolinea C. Andreou dell’Università dello Utah, nel suo libro “Il ladro di tempo”, rimandare continuamente i propri impegni, perdere tempo non conduce altro che ad un accumulo dei compiti da svolgere soprattutto per chi è coinvolto in progetti lavorativi a lungo termine. Si genera perciò, una sorta di spirale senza fine  che ci fa percepire noi stessi come sempre più incapaci di affrontare la vita, con un inevitabile abbassamento del livello di autostima ed una concreta diminuzione della capacità produttiva.

La tendenza a procrastinare però, spesso è talmente ben radicata dentro di noi che eliminarla può rivelarsi complicato in quanto coinvolge tutti aspetti della vita dei soggetti che ne soffrono. Uno dei problemi che contribuiscono a farci rimandare a domani ciò che dovremmo fare oggi è la paura: del fallimento, dei cambiamenti, delle maggiori responsabilità che una nuova situazione può comportare nella nostra vita. Il non poter controllare il futuro, non poter prevedere cosa ci aspetta, ci fa sentire un po’ come Alice nel paese delle meraviglie, stupiti cioè da un nuovo mondo ma allo stesso tempo terrorizzati per cosa potrebbe accadere, per tutte le novità dalle quali ci possiamo sentire travolti. In questi casi, il primo passo è fondamentale e solo dopo che ci siamo incamminati su un nuovo percorso possiamo guardarci indietro e forse anche sorridere di noi, delle nostre esitazioni. Una volta che abbiamo compiuto il primo passo, molto spesso, se c’è qualcosa di cui ci pentiamo è solo di non averlo fatto prima!

Un altro aspetto che minaccia la nostra capacità di portare a termine un progetto è non avere le idee chiare rispetto a quali sono i nostri obiettivi. Diventa quindi fondamentale organizzare al meglio il lavoro attraverso un piano d’azione che preveda tanti piccoli obiettivi da svolgere con scadenza regolare, magari un paio ogni giorno. La tendenza ad avere in mente un grande progetto infatti, ci spinge non solo a percepirlo come un’enorme mole di lavoro impossibile da svolgere, ma anche ad inserirlo nella categorie della “cose da svolgere nel futuro” che si trasforma velocemente in “mai”. Diventiamo così facili “prede del sistema”: ci ritroviamo alla fine della giornata a renderci conto che non siamo riusciti a concludere niente e che invece abbiamo trascorso tutto il tempo a ciondolare tra una notizia di Facebook, una foto su Instagram o qualche tweet. È proprio in questi meccanismi infatti che si inseriscono i giganti del web, che da lungo tempo hanno studiato, compreso e imparato a sfruttare queste tendenze psicologiche, trasformandoci talvolta in vittime più che fruitori di un servizio.

Si tratta di una tendenza a preferire una soddisfazione immediata del desiderio che trova soddisfacimento in tante piccole, veloci quanto inutili gratificazioni che si trasformano, a lungo andare, in un ostacolo al nostro successo! Una strategia utile invece può essere quella di programmare delle pause durante la giornata in cui possiamo dedicare un tempo limitato a controllare i messaggi degli amici, o dedicarci ad una lettura frivola, o semplicemente a guardare un breve video divertente. L’idea è che ci possiamo concedere delle piccole distrazioni durante momenti precisi che stabiliremo noi, purché queste non finiscano per occupare la maggior parte della nostra giornata, minando così i nostri sogni e quindi la nostra felicità presente e futura. Perché se continuiamo a ripeterci che “tanto c’è tempo domani” i nostri sogni resteranno a marcire nel famoso cassetto e finiremo per sentirci frustrati e delusi da noi stessi e dalla vita.

Il tempo della felicità è il presente, ma quando si tratta di svolgere un compito tendiamo sempre a pensare che domani saremo più bravi, più preparati, più esperti. Tendiamo a procrastinare non solo perché questo mette a tacere temporaneamente i nostri sensi di colpa, ma anche perché ci illudiamo che domani saremo improvvisamente e magicamente persone migliori. Alcuni studi hanno dimostrato inoltre che siamo inclini a sottostimare il tempo che impiegheremo per svolgere attività future; è per questo motivo che rimandiamo fino all’ultimo pensando di avere ancora tempo, ritrovandoci poi a dover studiare la notte prima dell’esame, o a lavorare freneticamente nei giorni che precedono una scadenza.

Un interessante studio del Journal of Consumer Research rivela che dietro l’atteggiamento del procrastinare si cela una particolare inclinazione a categorizzare il tempo in modo illogico. Secondo i ricercatori infatti tutti gli impegni che quotidianamente incontriamo vengono automaticamente categorizzati in termini di “presente” e “futuro”. Quando un compito da svolgere ricade nella categoria “presente” abbiamo più probabilità di iniziare a lavorare a quell’obiettivo subito. Al contrario, quando la scadenza di un compito da svolgere ricade nella nostra categoria mentale “futuro”, viene processato come qualcosa che “un giorno” faremo. Inutile dire che “il poi è parente del mai” e quel “giorno” tenderà a non arrivare, appunto, mai. Se esiste un trucco quindi, è quello di cercare di far ricadere le nostra scadenze nel presente, non la settimana prossima, non il mese prossimo, ma oggi.

Questi atteggiamenti che mettiamo in atto in modo inconsapevole si trasformano silenziosamente in tanti piccoli atti di sabotaggio che ogni giorno, goccia dopo goccia, ci conducono ad una vita infelice. Il principale ostacolo al raggiungimento dei nostri obiettivi siamo proprio noi stessi! Esserne consapevoli è il primo passo per riconoscerli e poter agire attraverso strategie che ci aiutino ad evitarli.

Ho procrastinato circa un mese prima di scrivere questo articolo, ma oggi  ho deciso che dovevo smettere di procrastinare e sono riuscita a portarlo a termine. Segui anche tu il mio esempio e prova oggi a concludere o ad iniziare qualcosa che rimandi da tempo!

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Sogni: messaggi dall’inconscio

by Romina Rubino 09/06/2015
written by Romina Rubino

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Sin dall’antichità il sogno ha affascinato l’uomo: il mistero che sembra celato nei simboli onirici ha coinvolto gli studiosi più autorevoli a partire dagli scritti pervenuti dall’antico Egitto sino al grande lavoro svolto da S. Freud. Con ‘L’interpretazione dei sogni’, il padre della Psicoanalisi ha rivoluzionato l’approccio all’universo onirico, che in breve tempo si è trasformato da gioco popolare a scienza vera e propria.
Lontani ormai dal considerare il sogno come un messaggio divino, ancora oggi subiamo il fascino di questo strano mondo, che continua a celare in piccoli simboli grandi significati.

Tutti sogniamo, più precisamente durante la fase REM (Rapid Eye Movement – Movimenti Oculari Rapidi), momento in cui il cervello integra ed elabora le informazioni acquisite durante la veglia. Infatti, più che affermare di non sognare, sarebbe corretto dire che non si ricordano i propri sogni: in questi casi spesso è sufficiente ripetere più volte il sogno al risveglio, ripercorrendo le immagini e le sensazioni provate.

Volgere uno sguardo al nostro mondo onirico ci permette di entrare in relazione diretta con la parte più profonda di noi, da cui si generano le emozioni e in cui sono custoditi quei ‘segreti’ che non riusciamo a rivelare coscientemente neanche a noi stessi.
La tecnica psicoanalitica per interpretare i sogni è quella delle “libere associazioni” che consiste nel verbalizzare pensieri, ricordi e sensazioni liberamente. È necessario partire da una descrizione del sogno con parole il più possibile spontanee, per poi soffermarsi sugli elementi che più ci colpiscono.
In genere l’attività onirica compone il sogno a partire da immagini legate a situazioni a cui magari non abbiamo prestato attenzione durante la giornata, ma che vengono riutilizzate e rielaborate nel sonno. Attraverso le libere associazioni possiamo interpretare il linguaggio simbolico che il sogno utilizza per celare qualcosa di importante e significativo, ma che è fuori dal controllo della nostra mente conscia.

È importante sottolineare che interpretare un sogno richiede comunque un’adeguata formazione clinica e teorica. Sebbene sia utile porre attenzione al proprio mondo onirico, è sempre meglio rivolgersi ad un professionista in possesso degli strumenti necessari per giungere, insieme, ad una corretta interpretazione del sogno e quindi del nostro mondo interiore.
La simbologia del sogno, infatti, è sempre relativa e nell’interpretazione bisogna tener conto di vari aspetti: quello culturale e quello legato alla personalità di chi sogna.
Anche se ogni cultura fornisce elementi condivisi tra le persone che vi appartengono, nel sogno questi simboli vengono mescolati e riletti alla luce delle percezioni soggettive e della storia personale. Quindi, lo stesso simbolo onirico, anche sognato da due persone appartenenti alla stessa cultura, potrebbe non necessariamente mantenere lo stesso significato.

L’interpretazione dei sogni ci avvicina al nostro mondo interiore, apre le porte ad una conoscenza più profonda di noi stessi, della nostra personalità, del nostro inconscio.
Quando sogniamo, scriviamo come con una penna su un foglio bianco: lo strumento che tutti utilizziamo è lo stesso, ma ognuno conserva la sua calligrafia ed il suo stile, che è e resterà sempre unico.

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Lo sforzo del desiderio

by Romina Rubino 27/05/2015
written by Romina Rubino

“ Un uomo mentre camminava vide su una siepe un piccolo buco in un bozzolo; incuriosito si mise ad osservare e vide una farfalla che si sforzava per uscire da quel piccolo buco.
Dopo molto tempo, sembrava che essa si fosse arresa ed il buco fosse sempre della stessa dimensione.
Sembrava che la farfalla ormai avesse fatto tutto quello che poteva, e che non avesse più la possibilità di fare niente altro.
Allora l’uomo decise di aiutare la farfalla: prese un temperino ed aprì il bozzolo. La farfalla uscì immediatamente.
Però il suo corpo era piccolo e rattrappito e le sue ali erano poco sviluppate e si muovevano a stento.
L’uomo continuò ad osservare perché sperava che, da un momento all’altro, le ali della farfalla si aprissero e fossero capaci di sostenere il corpo, e che essa cominciasse a volare.
Non successe nulla! In quanto, la farfalla passò il resto della sua esistenza trascinandosi per terra con un corpo rattrappito e con le ali poco sviluppate. Non fu mai capace di volare.
Ciò che quell’uomo, con il suo gesto di gentilezza e con l’intenzione di aiutare non capiva, era che passare per lo stretto buco del bozzolo era lo sforzo necessario affinché la farfalla potesse trasmettere il fluido del suo corpo alle sue ali, così che essa potesse volare.

A volte, lo sforzo é esattamente ciò di cui abbiamo bisogno nella nostra vita.
Se vivessimo la nostra esistenza senza incontrare nessun ostacolo, saremmo limitati.
Non potremmo essere così forti come siamo. Non potremmo mai volare! ”

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Lo sforzo è uno di quei concetti per cui sembra non esserci più spazio. Nella società dei consumi, del soddisfacimento immediato di qualunque bisogno, non c’è più posto per il desiderio.
Abbiamo perso la capacità di sognare, ma sopratutto quella di lottare per ottenere ciò che desideriamo.

L’attesa, la fatica, quel tempo che ci serapara dal nostro obiettivo è un momento più prezioso di quanto possiamo immaginare, perché ci mette alla prova, ci tempra dandoci la forza poi di… volare.

Ogni volta che ci ritroviamo in un momento di difficoltà pensiamolo come una palestra, come un allenamento cui la vita ci sottopone per preparaci a portare il peso delle nostre conquiste, degli obiettivi raggiunti.

Ciascuno di noi ogni giorno lotta contro se stesso per affrontare le proprie paure e, anche se non ce ne accorgiamo, anche se a volte possiamo pensare che siamo gli unici a soffrire, tutti conducono la propria guerra interiore.

Il percorso per toccare e superare i propri limiti è lento e soprattutto faticoso e nessuno ci arriva senza soffrire: è proprio lo sforzo che abbiamo fatto nel cammino per raggiungere la vetta che renderà il panorama indescrivibile. 

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Ogni volta che non diciamo…

by Romina Rubino 30/04/2015
written by Romina Rubino

Yoko Ono

Quante volte preferiamo stare zitti e covare dentro per non rischiare di ferire l’altro?
Quante volte evitiamo di esprimere le nostre idee perché sentiamo di essere gli unici a pensarla diversamente? Quante volte invece preferiamo ferire noi stessi non dicendo ciò che sentiamo, pur di non intaccare l’immagine che gli altri hanno di noi?

Nella vita di tutti i giorni può capitare ad esempio di essere superati mentre siamo in fila, o di sentirci infastiditi dal comportamento di qualcuno a cui vogliamo bene ma che in quel momento ci ferisce.
Spesso scegliamo di stare zitti, di mettere a tacere le nostre emozioni talvolta nel tentativo ci proteggere l’altro, altre volte per proteggere la nostra immagine.
Ma ogni volta che non diamo voce alle emozioni una piccola parte di noi muore schiacciata dalla rabbia e dalla frustrazione e veniamo poi invasi come da un senso di impotenza, di fallimento.
Si tratta generalmente di piccoli episodi, insignificanti per il resto del mondo; talmente semplici che può capitare di vergognarcene anche solo a raccontarli, ma che invece ci toccano nel profondo, il cui ricordo ci tormenta a volte per giorni.

Esprimere i propri punti di vista, le proprie idee, la propria visione del mondo significa essere a contatto con le proprie emozioni e trovare un modo equilibrato per condividerle anche quando creano dolore.
Il prezzo che paghiamo ogni volta che restiamo in silenzio, mettendo a tacere noi stessi, è altissimo. Forse non ce ne accorgiamo immediatamente, ma nel tempo un simile comportamento creerà dentro di noi un vulcano pronto ad esplodere. È così che può capitare di rispondere davvero male ad un amico che magari ha solo fatto una battuta che è l’ultima di una serie di atteggiamenti che, magari a sua insaputa, ci feriscono.

Quando troviamo un nostro equilibrio interiore viene spontaneo restare in contatto con il flusso emotivo che inevitabilmente ogni giorno ci attraversa. È questo contatto che ci permetterà di esprimerci in modo rispettoso dell’altro e allo stesso tempo assertivo, ovvero rispettoso di chi siamo. L’obiettivo non sarà più avere ragione o aggredire l’altro, ma semplicemente mostrare il proprio punto di vista e implicitamente rispettarsi e ottenere rispetto.

Potremmo iniziare a provare ogni giorno a fare un piccolo sforzo per esprimere le nostre idee, le emozioni anche negative, evitando in tal modo di farle accumulare dentro di noi. Tutto ciò che è inespresso, anche quando pensiamo di averlo chiuso in qualche stanza remota della mente, continua a farsi sentire e ad agire nei modi più sorprendenti.
Se c’è un concetto che è rimasto immodificato in tutta la storia della psicologia è l’idea che tutto ciò che è chiuso, separato, inespresso nella nostra mente è fonte di patologia. Ricordiamocene la prossima volta che dovremo scegliere se esprimerci o scomparire.

30/04/2015 0 comments
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Primi passi di uno psicologo italiano nel Regno Unito

by Romina Rubino 22/03/2015
written by Romina Rubino

ATTENZIONE: Le informazioni presenti in questo articolo non sono aggiornate e sono state raccolte nel 2015.
A tutti i colleghi interessati consiglio di consultare i siti uffciali del Governo in quanto la situazione potrebbe essere cambiata anche molto dopo la Brexit. 

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Quando si decide di intraprendere una nuova avventura come quella di trasferirsi all’estero, per quanto si possa cercare di preparsi prima per affrontare il grande cambiamento e nonostante la ricerca di testimonianze e consigli da parte di altri che avevano già fatto “il grande salto”, non si è mai abbastanza preparati quando si tratta di stravolgere la propria vita.

Al di là delle esperienze individuali, che si colorano inevitabilmente delle sfumature più variegate, ottenute da un mix di caratteristiche personali: minore o maggiore flessibilità, differenti posizioni economiche, background culturali ed età, ci sono dei percorsi che definirei obbligati.

È questo sicuramente il caso dei colleghi che arrivano prima o poi alla ricerca delle modalità per il riconoscimento dei titoli di studio conseguiti in Italia per poter lavorare in ambito psicologico in Inghilterra.
Si tratta di uno degli aspetti vissuti con maggiore frustrazione per la difficoltà di reperire informazioni. Ci si ritrova ad impiegare intere giornate con la sensazione di vagare senza senso nel web alla disperata ricerca di coordinate generali su cui orientarsi.

In un marasma di informazioni frammentarie e sconnesse  sembra a volte impossibile sbrogliare la matassa e ritrovare l’orientamento emotivo, psicologico e pratico.
Cerchiamo allora un po’ di chiarezza.

Prima cosa importante da sapere è che in UK psicologo e psicoterapeuta sono due figure diverse al punto da seguire percorsi di studio completamente differenti.
Al contrario che in Italia, lo psicologo è considerato una figura di maggior prestigio rispetto allo psicoterapeuta!

La formazione dello psicologo prevede una laurea di primo livello in Psicologia e un paio d’anni di esperienza come Assistant Psychologist. (Esistono richieste per questo ruolo la cui retribuzione si aggirava intorno ai 1,000 / 1.200 pounds mensili)
Successivamente si può accedere ad un dottorato di altri 2 anni (per cui pare ci sia una competizione altissima) in cui ci si specializza in un’area di interesse tra: clinical, counselling, educational, forensic health, occupational, o teaching and research in psychology.

Praticamente in Italia è necessario concludere un percorso di 5 anni per otterene la laurea in Psicologia ed accedere ad un dottorato.
In UK (dove la pratica ha l’assoluta priorità) si studia Psicologia per 3 anni, poi si fa esperienza per almeno altri 2 anni e poi si procede con il dottorato.
Per cui, quando uno psicologo con la laurea quinquennale (non importa che sia la 3+2 o il famoso vecchio ordinamento) arriva in UK in realtà è paragonabile a chi qui ha preso la “semplice” laurea in Psicologia, che dura 3 anni.

Potete trovare informazioni più dettagliate nel sito dell’NHS.

La formazione di uno psicoterapeuta prevede invece un corso la cui durata può variare dai 2 ai 4 anni in base all’orientamento scelto, per i quali NON è necessaria una laurea in Psicologia.

Per questo non è raro trovare psicoterapeuti in UK con un background anche molto lontano dall’ambito della salute mentale.
È per lo stesso motivo che se magari vi capita di  chiedere informazioni per l’iscrizione alla The British Psychological Society  (BPS) in qualità di psicoterapeuti li sentirete rispondervi con tono alquanto risentito che loro accettano iscrizioni solo da psicologi!

Nel link qualche ulteriore chiarificazione rispetto alle differenze di ruolo e di formazione tra Psychologist e Psychotherapist/Counsellor.

Per quanto riguarda gli orientamenti più diffusi, pare che in UK sia fortemente privilegiato l’approccio Cognitivo Comportamentale.
A questo ci si riferisce con la sigla CBT – Cognitive Behavioural Therapy. Una tendenza che si riscontra anche in Italia, ma ancor di più in una cultura fortemente fondata sulla praticità come quella inglese.
Probabilmente anche per questo il governo tende a finanziare maggiormente questo tipo di terapie che dovrebbero risolvere i sintomi velocemente.
Ciò non toglie ovviamente che anche i terapeuti di orientamenti dinamici possano trovare lavoro, seppur con qualche difficoltà in più.

Passiamo ora a cercare di fare ordine tra le varie possibilità di lavorare in ambito psicologico nel Regno Unito.
Il riconoscimento ufficiale dei titoli è ad opera della Health and Care Professions Council  (HCPC)  che regola alcune professioni sanitarie tra cui quella di psicologo.
Il riconoscimento del titolo da parte dell’HCPC consente di fare carriera nell’NHS (National Health System), ovvero nel Sistema Sanitario Nazionale inglese, per dirla all’italiana in ambito pubblico.
Ottenere questo riconoscimento significa che il titolo italiano viene equiparato a quello inglese: verificano cioè che il vostro percorso di studi abbia lo stesso “valore” di quello inglese.
Solo dopo aver ottenuto questo riconoscimento (e non prima) sarà possibile definirsi “Clinical psychologist”!

Lavorare in ambito pubblico, ovvero nell’NHS, pare sia abbastanza difficile per l’altissima competizione (si fa difficoltà anche a trovare posto per un volontariato!) e sicuramente perché il processo di riconoscimento del titolo è complesso, lento e costoso (ma non impossibile).
Molti infatti preferiscono iniziare da altre vie e solo successivamente sottoscrivere la richiesta di riconoscimento del titolo all’HCPC.

Se si vuole percorrere questa strada, cioè carriera in ambito pubblico.
Esistono 2 tipi di riconoscimento:

–       Uno temporaneo detto Temporary che è quello più veloce da ottenere e ha valenza di 1 anno alla scadenza del quale è rinnovabile di un altro anno al massimo. In genere si impiega un mese per ottenerlo.
Questo riconoscimento riguarda chi intende fare un’esperienza – temporanea appunto, in UK e ancora non è deciso a rimanervi in modo definitivo.
Questo tipo di riconoscimento temporaneo del titolo però, seppur più semplice da conseguire, NON equipara il titolo italiano a quello inglese, per cui con questo non è possibile concorrere alle offerte di lavoro per “Clinical Psychologist” che è invece un titolo protetto per legge in UK e non può essere utilizzato se non rilasciato dall’HCPC.

–   Esiste poi un riconoscimento permanente detto Permanent o Full-HCPC registration che è quello ufficiale ed è appunto a tempo indeterminato.
Il percorso in questo caso è più complicato non solo perché vengono richiesti numerosi documenti, tutti in originale (niente firme digitali o scansioni o stampe) ma anche perché viene richiesto un periodo di esperienza nell’NHS che si compone generalmente di 3 fasi: shadowing (osservazione), assessment (affiancamento) e treatment (trattamento di pazienti sotto supervisione).

Non ultimo per difficoltà, nella documentazione viene inoltre richiesto  una prova di lingua inglese, nello specifico lo IELTS, di cui se non avete mai sentito parlare, troverete informazioni più dettagliate nel link (in italiano).
Si tratta di un test valido a livello internazionale che certifica il livello di inglese raggiunto sotto vari aspetti (listenining, reading, writing, speaking). Fare l’esame costa circa 200 euro e per quanto riguarda l’iscrizione alla HCPC il livello minimo richiesto è il 7 (il livello massimo è 9). Poichè con lo IELTS si limitano a certificare il livello raggiunto (quindi se non siete livello 7 dovrete ripagare e rifarlo successivamente), molti tendono ad aspettare l’ultimo momento utile per poterlo fare.

Per poter far carriera nel pubblico è quindi prima necessario sottoscrivere la Temporary, con questa fare esperienza (volontariato o retribuita) nell’NHS e solo poi passare alla richiesta della Permanent.

Questo il link dove vengono spiegate le differenze tra temporary e permanent registration.

Per sottoscrivere la Permanent comunque vi sarà richiesto:

–       un pagamento di 420 pounds (circa 500 euro) per lo svolgimento della pratica

–       compilazione di un “application form”

–      compilazione di un “Course information form” che deve essere timbrato sulla prima pagina dalla segreteria della propria università assolutamente in originale. Si tratta di un elenco degli esami sostenuti, con descrizione dei programmi, delle ore di studi necessarie e della modalità d’esame (orale, scritto, pratico)

–       prova del titolo di laurea con esami e relativi programmi di studio dettagliati, un documento che dovrebbe chiamarsi Syllabus (nella richiesta all’università specificate che devono essere validi per l’estero, vi chiederanno una marca da bollo di 16,11 euro per ogni certificato; richiedete in più il Diploma Supplement che è un ulteriore documento rilasciato dall’università per l’estero, anche se è in inglese non sostituisce le traduzioni certificate!)

–       traduzione certificata dei titoli compresi esami (effettuata cioè da un traduttore certificato, reperibile dal sito del Consolato italiano a Londra.)
Senza addentrarci nell’universo delle traduzioni certificate (Semplice, Asseverata, Giurata, Con o senza Apostille??) questo il link per capire cosa intendono per “traduzione certificata” in UK. Andate in fondo alla pagina alla voce “Certifying a translation”.

–       attestazione di iscrizione all’Albo (tradotta)

–       e-mail di conferma da parte dell’Università

–       prova di cittadinanza europea (da richiedere al proprio comune, specificate sempre valida per l’estero e vi verrà richiesta altra marca da bollo)

–       un referee (referente) una persona, non necessariamente un collega, che vi conosce da almeno 3 anni (non un familiare) che garantisca per i dati personali forniti

–       uno sponsor, un collega iscritto all’albo di riferimento (anche qui non deve essere un familiare) e che vi conosce da almeno 3 anni a livello professionale e faccia da garante rispetto alle qualifiche e capacità professionali.
Sia lo sponsor che il referee dovranno fornire dati personali e/o prova delle qualifiche e potranno essere contattati

–       e ovviamente un periodo di esperienza nell’NHS

Il concilio si riunisce 2 volte all’anno, per questo i tempi per ottenere il riconoscimento permanente se non si fanno errori e si spedisce tutto correttamente si aggirano intorno ai 6/9 mesi . Se avete ancora dei dubbi su qualche passaggio della procedura, potete chiamare o scrivere al servizio “registration” della HCPC.
Tutto ciò che viene inviato diventa di proprietà della HCPC e non vi verrà restituito (evitate quindi si spedire la vostra pergamena di laurea originale!), inoltre consiglio comunque di fare una copia di tutti i documenti da conservare per poterli consultare in futuro in caso di problemi.
Questo il link per informazioni più dettagliate per la Permanent
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uesto il link per accedere direttamente al form per sottoscrivere la permanent.

Questo invece il link dell’NHS dove si possono trovare offerte di lavoro o di volontariato

Esiste però anche un percorso che prevede l’iscrizione ad una delle associazioni di categoria alle quali le aziende si rivolgono per assumere psicologi privatamente:

–       BPS (The British Psychological Society) dedicata agli psicologi.

–       UKCP  (UK Council for Psychoherapy) che si occupa di psicoterapeuti.

–       BACP  (British Association for Counselling & Psychotherapy) sempre per psicoterapeuti.

La documentazione richiesta in questo caso è:

–       pagamento di una tassa annuale di 160 pounds più sottoscrizione di una delle categorie di interesse per cui si paga a parte una cifra che può variare dai 20 ai 30 pounds.

–       compilazione di un “application form” (reperibile sul sito)

–       prova dei titoli:
1. Titolo di laurea con esami
2. Attestazione di iscrizione all’Albo
3. Certificato della scuola di specializzazione con durata complessiva del corso, ore di lezione e supervisione effettuate

–       traduzione certificata dei titoli compresi esami

–       prova dell’indirizzo con la quale verificano che vivete effettivamente dove dichiarate di vivere; per questa dovete allegare o un documento che vi è stato spedito ad esempio dalla banca (quindi dove compare il vostro nome e l’indirizzo) o un documento ufficiale ad esempio quello con cui vi è arrivato il NIN (National Insurance Number)

–       un referee (referente) una persona, non necessariamente un collega, che vi conosce da almeno 3 anni (non un familiare) che garantisca per i dati personali forniti

–       uno sponsor, un collega iscritto all’albo di riferimento (anche qui non deve essere un familiare) e che vi conosce da almeno 3 anni a livello professionale, che faccia da garante rispetto alle qualifiche e capacità professionali e che vi sponsorizzi scrivendo perché dovreste essere accettati
Sia lo sponsor che il referee dovranno fornire dati personali e/o prova delle qualifiche e potranno essere contattati.

La documentazione deve essere non precedente agli ultimi 6 mesi e tutti i documenti, firme e compilazione dei dati, devono essere in originale. Il tutto va spedito ovviamente per posta.
In genere la richiesta richiede 28 giorni lavorativi per essere approvata fatto salvo dimenticanze o errori.

Essere iscritti ad una di queste associazioni sembra il modo più semplice per incominciare, magari con posizioni più semplici all’inizio e man mano che l’esperienza aumenta (insieme alla confidenza con la lingua) si potrà poi aspirare a posizioni lavorative più prestigiose e retribuite o magari, se il vostro livello di inglese è molto alto e avete già una maturata esperienza potrete anche incominciare direttamente da un ruolo importante, questo dipende ovviamente dai singoli casi.

Molto importante nella cultura inglese sono le esperienze di volontariato; l’ideale sarebbe partire da un’esperienza di supporto psicologico o di ambito affine, magari unendo contemporaneamente un lavoro altro part-time per mantenervi.

Le informazioni che qui ho condiviso sono frutto di mie ricerche personali e sono state reperite sul web o da esperienze di altri colleghi. Sebbene io abbia cercato di verificarne l’esattezza, consiglio sempre prima di intraprendere un qualunque movimento, di cercare comunque conferma da fonti ufficiali.

Spero che questo articolo possa servire ai colleghi che affrontano o affronteranno una simile avventura per sentirsi  un po’ meno disorientati nel muovere i primi passi in ambito psicologico in un contesto tutto da scoprire.
Cambiare nazione è un passo complesso che scatena emozioni spesso contrastanti, sollevando una sorta di moto ondoso emotivo per cui si alternano spesso momenti di grande motivazione a periodi di profondo sconforto.
Per cui, se vi sentite o vi siete sentiti così sappiate che si tratta solo di “storie di ordinaria follia” e che le difficoltà sono sempre parte delle scelte coraggiose!

22/03/2015 0 comments
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Esprimersi o avere ragione

by Romina Rubino 16/02/2015
written by Romina Rubino

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Ultimamente mi è capitato più spesso di leggere su internet articoli e post sugli argomenti più svariati.
Di qualunque tema si parli, di questioni di giustizia, di avvenimenti personali, notizie dell’ultima ora o lo show televisivo del momento ciò che davvero non manca mai sono i numerosi commenti di chi visualizza l’informazione.

Si tratta di una tendenza che riscontro sempre più di frequente e che mi colpisce molto. Nella vita come nel lavoro infatti, mi è capitato frequentemente di incontrare persone timide, che faticano a socializzare e spesso lamentano una difficoltà nell’esprimere la propria opinione. Possono essere numerose le situazioni in cui ci sentiamo “senza argomenti”, come se fossimo scoperti e che ci fanno sentire in una sorta di senso di inferiorità che nel confronto (reale) con l’altro sembra prendere il sopravvento.

Eppure dietro allo schermo diventiamo tutti cuor di leone, pronti a batterci a suon di commenti per esprimere con forza le nostre idee, spesso pronti anche ad insultare chi ci contraddice con il suo pensiero diverso. Mi chiedo se questo sia uno dei tanti effetti collaterali che internet e la (non) vita virtuale ha su di noi.

Forse è bene sempre tenere a mente che dietro lo schermo, dietro ogni tastiera c’è un essere umano, un’altra persona come noi, che soffre, lotta con la propria storia a cui non abbiamo accesso.  Prima di scrivere l’ennesimo commento feroce scagliandoci contro il malcapitato di turno, forse potremmo cogliere l’occasione di interrogarci sul perché diventa così importante per noi affermare con tale forza il nostro pensiero.

Ritengo che esprimere le proprie idee sia ben diverso da voler convincere l’altro a tutti i costi di avere ragione. Spesso, almeno per la mia esperienza, esprimere se stessi ed avere ragione hanno poco a che fare tra loro.

Credo inoltre che esprimersi e farsi un’opinione su un argomento sia un lavoro che richiede un tempo ed uno sforzo che vanno molto oltre il leggere qualche notizia in ordine sparso.
Internet è uno strumento che ha sicuramente rivoluzionato l’informazione, rendendo accessibili una marea di strumenti che prima erano ad esclusiva disposizione degli specialisti del settore. Di certo, però, non ci rende tutti specialisti in tutto!

Abituarci ad utilizzare espressioni come “penso che”, “questa è la mia opinione”, “secondo il mio punto di vista” forse può aiutarci a ricordare che la nostra voce ha diritto ad esprimersi come quella di tutti gli altri e che la maggior parte delle volte abbiamo accesso solo ad una visione parziale delle notizie che leggiamo.

Mi viene in mente un simpatico aneddoto che riguarda la vita di Einstein e che mi torna spesso utile nella quotidianità per mantenere la mia mente “sveglia” e che credo possa essere utile a tutti.
Einstein ha lavorato per molti anni in un ufficio brevetti; il suo compito consisteva nel valutare se concedere un brevetto a tutti coloro che ne facevano richiesta, convinti di avere avuto un’idea geniale, quantomeno originale.
Fu proprio in questo contesto che il grande scienziato ebbe modo di sviluppare il suo pensiero critico.

Adottò un sistema molto semplice che mi sento di suggerire a chiunque voglia esercitare il proprio pensiero critico e che fu suggerito ad Einstein dal suo capo: ogni volta che valuti una domanda di brevetto”parti dal presupposto che tutto ciò che dice l’inventore sia sbagliato… altrimenti ti adeguerai al suo modo di pensare, e ciò ti provocherà dei pregiudizi.
Il tuo spirito critico deve rimanere sempre vigile.”

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Matrimonio tra una persona sorda ed una udente

by Romina Rubino 02/02/2015
written by Romina Rubino

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(Questo articolo è disponibile nella sua versione in lingua originale al link: http://deafness.about.com/cs/friendshiparticles/a/mixedmarriage.htm )

Com’è essere sposati con una persona udente (e per una persona udente aver sposato una persona sorda)? Abbiamo chiesto ad una coppia sordo-udente.

Coniuge sordo:

• Quando andiamo a trovare i parenti è il coniuge udente che comunica facilmente con loro, mentre io mi limito ad utilizzare la mia capacità di leggere le labbra al meglio di quello che posso e scrivere e riscrivere.

• Quando facciamo feste di compleanno per i bambini, se qualcuno degli altri genitori non segna bene, io ho difficoltà a comunicare con loro e spesso devo contare o su qualche altro genitore che segna meglio, che interpreti, o sul mio coniuge udente.

• Quando siamo fuori in un luogo pubblico, per esempio un ristorante o un parrucchiere, qualche volta il mio coniuge udente deve spiegare se loro non capiscono la mia pronuncia (la mia pronuncia è facile da capire per le persone udenti che non mi conoscono). Quando è possibile, io cerco di comunicare da solo, parlando, scrivendo o puntando così a non diventare dipendente dal mio coniuge udente.

• Nei primi giorni della nostra relazione sordo-udente, il coniuge udente non era molto accettato dalla comunità sorda. C’è voluto tempo, ma adesso il coniuge udente è completamente accettato. La disponibilità del coniuge udente ad usare la lingua dei segni e a partecipare alla comunità sorda è stata molto importante nel nostro matrimonio.

• La prima lingua dei nostri bambini sordi è ASL (American Sign Language – Lingua dei Segni Americana) e lui non sempre li comprende. Spesso sono nel ruolo di interprete al contrario, dando voce a quello che loro segnano se non usano la voce.

• Il mio coniuge udente si esprime bene con la lingua dei segni, ma non riesce altrettanto bene a recepire, il che significa che deve fare molto affidamento sulla mia voce per comunicare. Se non avessi parlato non so se saremmo ancora sposati. Sto provando a non usare più la mia voce per migliorare le capacità recettive del mio coniuge udente. (La comunicazione è uno dei problemi più grandi nei matrimoni tra sordi e udenti).

Coniuge udente:

• Faccio ancora difficoltà quando devo capire i segni . Non avevo mai segnato nella mia vita, o per gran parte di essa, e non lavoro con persone che segnano. Come parte di un matrimonio sordo-udente continuo a lavorare sulla mia capacità di comprensione dei segni.

• Se il coniuge sordo mi urla qualcosa in casa, io non posso rispondere gridando. Devo andare dove si trova e capire cosa vuole. Anche i nostri bambini adesso lo fanno. In qualche modo loro sfruttano il fatto che io sono udente e loro sono sordi!! (Coniuge sordo: Io sono consapevole che lo faccio e che non dovrei farlo. Sto lavorando per imparare ad andare dal coniuge udente, piuttosto che gridare. Questa è una delle cose che devi fare in un matrimonio sordo-udente.)

• Il coniuge sordo usa l’espressività delle persone sorde, e nota poca espressività in me o nelle altre persone udenti considerandoci apatici e privi di entusiasmo. Io gli rispondo che questo non è necessariamente vero, visto che le persone udenti spesso esprimono le emozioni con la voce più che con il viso.

• Il coniuge sordo non è ancora molto a suo agio nelle situazioni sociali con molte persone udenti, e io non sono ancora molto a mio agio nelle situazioni con molte persone sorde. Comunque, è più facile per me in un raduno di sordi che per il coniuge sordo in un raduno di udenti, perché è più probabile che ci sia una persona udente o che si esprime a voce ad un evento di sordi, che una persona sorda o una persona che segna ad un evento di udenti.

• Veramente, la maggior parte della nostra vita sociale tende a ruotare attorno ai genitori dei compagni di classe dei nostri figli. Questo ci aiuta molto perché la maggior parte dei genitori sono sia persone udenti che possono segnare che persone sorde che usano la voce.

Coniuge udente: Nonostante i problemi di un matrimonio sordo-udente e di crescere bambini sordi se tu sei udente, non mi sono mai pentito di aver sposato una persona sorda o di aver avuto figli sordi, e rifarei la stessa cosa, un milione di volte.

Coniuge sordo: E se sei sordo come me e in una relazione sordo-udente, ti potresti trovare qualche volta a desiderare che il tuo partner fosse sordo o anche che avesse difficoltà di udito. Comunque, quello che è importante è il carattere della persona che hai scelto di sposare, non quanto lui/lei possa sentire bene.

(Traduzione a cura della Dott.ssa Romina Rubino)

Segui su Facebook la pagina dei CODA Italia (Children of Deaf Adults), un’Associazione di Promozione sociale nata in Italia che si occupa di figli udenti di genitori sordi.

https://www.facebook.com/codaitalia

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Diversi… come il giorno e la notte

by Romina Rubino 27/01/2015
written by Romina Rubino

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Un breve commento su un interessante cortometraggio che affronta simbolicamente il tema di come possiamo reagire di fronte al “diverso”. Un argomento che trovo particolarmente attuale soprattutto se pensiamo a quanto spesso venga subdolamente utilizzato per tentare di manipolare le nostre opinioni.

Tutto ciò che è diverso da noi, immediatamente categorizzato come estraneo, inizialmente ci spaventa e ci conduce ad una chiusura in cui sentiamo come il bisogno di sottolineare i nostri contorni, di rimarcare chi siamo. Ma se ci facciamo guidare solo dalla paura di perdere noi stessi, la nostra cultura, i nostri tratti caratteristici ci ritroveremo a vivere in un ambiente arido, stagnante.

Aprirsi al nuovo (simpaticamente rappresentato nella seconda parte del video) significa andare oltre quella diffidenza iniziale, che può spaventare.
Incontrare profondamente l’altro non penso significhi dover rinunciare a quelle caratteristiche che fanno di noi ciò che siamo; penso invece che possa essere un modo per arricchire se stessi, per conoscere nuove abitudini e modi di vivere anche molto diversi dai nostri, che non sottraggono nulla a ciò che già siamo, anzi aggiungono.

Guardarsi attraverso gli occhi di chi è diverso da noi è uno sofrzo che ci restituisce un’immagine molto più chiara di chi siamo, utile anche per ridare senso a ciò che facciamo.

Guarda il cortometraggio di cui parlo nell’articolo: Quando il giorno incontra la notte

 

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Romina Rubino Psicoterapeuta Italiana a Londra
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Membro BACP. Riceve a Londra. Email: rominarubino@yahoo.it

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