Romina Rubino
Psicologa, Psicoterapeuta Psicoanalista italiana a Londra
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Crescere come figlio di genitori sordi

by Romina Rubino 26/01/2015
written by Romina Rubino

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(Questo articolo è disponibile nella sua versione in lingua originale al link: http://deafness.about.com/od/families/a/growupcoda.htm )

Com’è crescere da bambino udente, figlio di genitori sordi, un CODA? Jake, un adulto udente che è cresciuto con genitori sordi, adesso morti, ha condiviso la sua esperienza con About.com. Leggi la storia di Jake, che ha avuto luogo decenni fa. Cosa è cambiato e cosa è rimasto uguale per i bambini che crescono CODA oggi?

D: In che periodo sei cresciuto?

R: Sono nato nel 1956, quindi la mia infanzia si è svolta principalmente negli anni ’60.

D: Come hai imparato a parlare? (Come fa un bambino udente con genitori che non parlano, ad imparare a parlare?)

R: io ero il primogenito, e non c’erano altre persone udenti che si fermassero regolarmente, così ho imparato a parlare quando ero già abbastanza grande da andare fuori a giocare con gli altri bambini udenti, all’età di circa 4 o 5 anni.

D: Eri mai imbarazzato dal fatto che i tuoi genitori fossero sordi?

R: Ricordo quando volevo segnare ai miei genitori in macchina e loro mi dicevano di tenere le mani un po’ più giù. Io penso che questo abbia contribuito a rendermi piuttosto imbarazzato nell’attirare un qualche tipo di attenzione segnando in pubblico. Comunque, non avrei mai parlato liberamente e avrei aspettato di dire o chiedere qualcosa ai miei genitori finché non ci fossimo trovati in una zona privata, specialmente quando dovevo fare da interprete per loro con i commercianti o altre persone d’affari.

D: Come gestivano i tuoi genitori gli incontri genitori-insegnanti a scuola?

R: Non sono mai andati. Potrebbe essere perché gli anni ’60 non erano l’epoca degli interpreti. Non furono mai nemmeno convocati a scuola per qualche problema di comportamento. Lo stesso valeva anche per andare in chiesa. Comunque, ricordo di una volta in cui mia madre venne a scuola, durante la mia prima elementare, e successivamente scoprii che le era stato detto che avevo bisogno di ripetere la prima classe.

D: Come socializzava la tua famiglia?

R: Crescendo, i miei genitori portavano noi bambini ai parchi divertimento, in estate una settimana di vacanze in spiaggia in New Jersey e a visitare i loro amici sordi il sabato sera o la domenica, e molti di loro avevano bambini vicini alla mia età. Invitavano anche i loro amici sordi a venirci a trovare nella nostra casa il fine settimana.

D: Hai avuto qualche fratello udente o sordo?

R: C’erano solo due bambini nella nostra famiglia, ed entrambi erano udenti. Sembra che mio padre fosse diventato sordo accidentalmente mentre era ancora nell’utero o subito dopo la nascita, mentre per mia madre è accaduto quando era bambina. Inoltre, nessun familiare da entrambi i lati dei miei genitori era sordo o con problemi di udito.

D: Come interagivano i tuoi genitori con i genitori udenti dei tuoi amici?

R: I miei genitori socializzavano principalmente con i loro amici sordi. Comunque, nel nostro quartiere di 20 file di case (Philadelphia, Pa.) c’erano, inclusi i miei genitori, quattro persone sorde! I miei genitori avrebbero voluto socializzare anche con questi altri due. Così come gli adulti del vicinato, i miei genitori, specialmente mia madre, avrebbero parlato, ma non è mai stato per visite prolungate tranne che per poche eccezioni.

D: I tuoi genitori erano attivamente coinvolti nella comunità sorda? Se si, ti portavano agli eventi per sordi e alle assemblee?

R: Sì, mia madre ci portava a varie attività per sordi nell’area di Philadelphia (dove è cresciuta), come alle attività nelle chiese, al bingo, serate film, picnic alla PA School for the Deaf e alla prima casa per Sordi e Ciechi, ecc. Mio padre era del New Jersey, così tutti e quattro andavamo ai club per sordi e partecipavamo alle attività del New Jersey.

D: C’è altro che vuoi aggiungere sulla tua esperienza di crescita come CODA?

R: Sì,le domande sopra hanno toccato della aree che vorrei sviluppare:

• Non ho frequentato l’asilo, la scuola materna o la primina, cosa che sono sicuro ha ritardato la mia acquisizione del linguaggio come bambino udente e ha probabilmente causato, sia per me che per mia sorella, il dover ripetere gli anni a scuola.

• Negli anni ’50 non c’erano test che potessero diagnosticare se un bambino fosse udente o sordo al momento della nascita, quindi i miei genitori erano molto ansiosi di scoprire se io fossi udente o no. Sono sicuro che loro avrebbero amato un bambino sordo, se ne avessero avuto uno, ma hanno preferito avere un bambino udente.

• Anche se i miei genitori hanno provveduto ai bisogni di base, a nutrirci, a proteggerci e a vestirci bene, per noi due bambini, non sono stati in grado di renderci sicuri di noi stessi. Io penso che fosse perché sentivano che se una persona era udente era adeguatamente preparata ad affrontare la vita. Come risultato, io ancora combatto con problemi di autostima. Adesso all’età di 51 anni, faccio ancora lavori sotto-pagati, non ho mai avuto una relazione a lungo termine, ecc.

• Penso che i bambini udenti nati da genitori sordi crescano sentendosi parte di entrambi i mondi, quello dei sordi e quello degli udenti, ma molti sordi, specialmente quelli che ho incontrato per la prima volta da adulto, sembrano metterci interamente in una categoria, quella degli udenti e in qualche modo mi ignorano. (Posso capire che loro possano essersi sentiti nello stesso modo andando nelle scuole per sordi con praticamente tutto il personale udente ecc . e con la famiglia che non si preoccupava di imparare la Lingua dei Segni o che li escludeva dai discorsi di famiglia.)

(Traduzione a cura della Dott.ssa Romina Rubino)

Segui su Facebook la pagina dei CODA Italia (Children of Deaf Adults), un’Associazione di Promozione sociale nata in Italia che si occupa di figli udenti di genitori sordi.

https://www.facebook.com/codaitalia

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Riflessi nel suicidio: nero cristallo

by Romina Rubino 23/08/2014
written by Romina Rubino

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La morte incrocia spesso le nostre vite da vicino in modi che ci toccano nel profondo e sconvolge le nostre esistenze, spesso trasformandole radicalmente.
Ma quando la morte diventa una scelta, quando qualcuno, un essere umano come noi, decide di rinunciare alla vita, a quello per cui tutti quotidianamente lottiamo con forza, allora ci sentiamo smarriti, persi, confusi.

Il senso di shock che ci blocca alla notizia di un suicidio ci pervade, conficcandoci nel cuore un perché.
È davvero difficile comprendere le ragioni profonde di un gesto così disperato; difficile e pericoloso, perché ci mette in contatto con le nostre ombre dietro cui si nascondono quei fantasmi che non abbiamo il coraggio di guardare.

Nonostante i numerosi studi sul tema, nonostante alcune brillanti spiegazioni psicologiche circa le fasi che conducono al gesto estremo, resta sempre un cruccio, un enigma dietro al quale si celano i percorsi tortuosi ed insoliti che la mente deve compiere per approdare alle porte della morte.
Sono eventi che ci mettono di fronte alla fragilità della mente umana, che ci spingono a riflettere su quelle debolezze, che tutti abbiamo e che cerchiamo troppo spesso di nascondere.

I miti della forza, della felicità a tutti i costi, hanno invaso ormai la società e ci sentiamo tutti in obbligo di dimostrare di stare bene, di divertirci, di non aver bisogno di niente e soprattutto di nessuno.
La verità però è che siamo fatti di emozioni e la tavolozza dei colori a cui attingiamo è molto variegata, tanto da comprendere non solo colori vivaci ed allegri, ma anche note tristi e toni scuri.

Spinti a sorridere sempre, siamo portati a negare quei momenti di tristezza  e sconsolazione che pure fanno naturalmente parte dell’esistenza. Ci costringiamo, a denti stretti, a mostrarci sempre forti e dentro implodiamo soli nel nostro dolore, stagnando in un senso di solitudine e nella sensazione che nessuno possa comprenderci.

Scrivere, parlare, confrontarsi; ciò che conta è esprimere se stessi, anche attraverso forme creative. Ciascuno deve trovare il suo modo di ascoltare il proprio dolore ed esprimerlo, perché non cresca nelle oscurità di quelle stanze che abbiamo, per paura, chiuso a chiave.

Aprirsi all’altro, anche solo per condividere le nostre piccole preoccupazioni, le paure, i momenti di sofferenza piccoli e grandi che normalmente viviamo, può aprire a nuove visioni del mondo; possiamo scoprire che non siamo soli, che spesso siamo circondati da persone che ci sostengono anche semplicemente con la loro presenza se solo osiamo aprirci a loro.

Per chi volesse approfondire il tema del suicidio segnalo un mio articolo:

http://www.giornalearmonia.it/se-la-notizia-di-un-suicidio-diventa-un-omicidio-linfluenza-dei-mezzi-di-comunicazione/

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Il delicato compito di educare

by Romina Rubino 09/07/2014
written by Romina Rubino

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Il compito dei genitori è gravoso: si tratta di un sottile equilibrio tra il proteggere e l’esporre il proprio figlio agli stimoli del mondo, per permettergli di realizzarsi per quello che è, rispettando le sue naturali propensioni.
Sempre più spesso mi capita però di incontrare bambini iper-stimolati, a cui viene chiesto di eccellere in ogni cosa ed implicitamente di portare il gravoso fardello di riscattare la propria famiglia dall’anonimato, dalla normalità.
Programmi televisivi che spettacolarizzano le capacità di bambini molto piccoli si sono infatti diffusi molto velocemente, lanciando la moda del “bambino di successo”.
I ritmi stressanti di lunghe ore d’attesa e prove estenuanti sembrano però, molto distanti dalla leggerezza del gioco finalizzato al puro divertimento. Un privilegio di cui nessun bambino dovrebbe essere privato!

Stimolare l’interesse dei bambini è fondamentale perché possano crescere sani e successivamente avere gli strumenti per raggiungere le loro aspirazioni, realizzare i propri sogni (e non quelli dei genitori).
Per questo si rivela particolarmente importante dedicare loro un tempo che vada nella linea della condivisione di esperienze nuove; momenti in cui il bambino possa sperimentare, sentendo di avere accanto un adulto di cui si può fidare e che si costituisce come base sicura da cui partire e a cui tornare per esplorare il mondo. Allo stesso tempo però, riempire i bambini delle attività più disparate, non solo appesantisce la loro età che dovrebbe essere per definizione leggera e spensierata, ma spesso li sottopone a livelli molto alti di stress.

Quando riempiamo i nostri bambini di attività, che si tratti di sport, musica, teatro, oltre che di studio ovviamente, o anche quando li iscriviamo a competizioni di bellezza o di tipo sportivo, cosa stiamo veramente chiedendo a quei bambini? È davvero un loro bisogno, un loro desiderio quello che vogliamo soddisfare? O piuttosto li stiamo involontariamente rendendo oggetto di nostri desideri?
L’accanimento e la competitività con cui molti genitori si approcciano alle attività didattiche e non, diventano un peso vero e proprio che quei genitori letteralmente mettono sulle spalle dei propri figli, costringendoli a soddisfare una sorta di voglia di riscatto che sicuramente non può appartenere ad un bambino.
È questo il caso ad esempio dei genitori che pubblicano le pagelle dei propri figli su Facebook facendo sfoggio e vanto dei loro voti (ovviamente alti), ma anche di quelli che semplicemente si limitano a comunicare a voce ad amici e conoscenti di quanto i propri figli siano appunto “di successo”. C’è una grande differenza tra supportare un bambino facendolo sentire gratificato per un risultato raggiunto ed usare i suoi risultati mettendoli in vetrina per riscattare la propria immagine agli occhi del mondo.

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Cosa accadrà nella mente di quel bambino quando magari per un piccolo momento di difficoltà personale non riuscirà a mantenere gli stessi standard? Si sentirà amato lo stesso? O sarà tentato di pensare che per essere amato deve produrre, deve primeggiare, deve avere successo?
I figli non sono trofei da sfoggiare ed è giusto che abbiano la reale possibilità di seguire le proprie propensioni e che non si sentano invece costretti a sacrificare i propri desideri, la propria spensieratezza sull’altare della realizzazione dei sogni falliti dei propri genitori.
Si tratta di un compito complesso e sicuramente delicato per i genitori, perchè richiede un contatto profondo con parti di noi con cui non è facile fare i conti.
Sopratutto quando abbiamo un cruccio, un sogno che per le vicissitudini della vita non ha trovato realizzazione, dobbiamo entrare in contatto con la frustrazione che quell’evento ha provocato dentro di noi. Solo dando voce alla nostra sofferenza potremo scongiurare il rischio che quel dolore, quel nodo, si riversi sulla vita dei nostri figli.

Ogni volta che sentiamo che il successo o la vittoria di un figlio in una competizione assume una rilevanza quasi vitale è bene che raccogliamo quella sensazione come segnale d’allarme che ci spinga ad interrogarci sul perchè un risultato è così importante.
Nella nostra società purtroppo la competizione è una grande protagonista e il rischio è che si perda di vista l’obiettivo principale: divertirsi!
Le ripercussioni che questo tipo di educazione comporta sono visibili anche negli adulti e non sorprende se sempre più spesso siamo vittime di crisi di panico ed ansia da prestazione.

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Il ritorno al mito di Narciso: diffusione del narcisismo nella cultura moderna

by Romina Rubino 17/03/2014
written by Romina Rubino

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“Che cosa sono adesso?”
pensava, contemplandosi allo specchio.
E lo specchio replicava con la brutale sincerità degli specchi:
«Non sei nulla».”

Virginia Woolf, Flush

Narciso, termine di derivazione greca, affonda le sue radici etimologiche in “narkè”, torpore.

Come spesso accade, l’etimo ci viene in soccorso per rivelare i significati profondi delle parole, gettando una luce, in tal caso, sul senso appunto di torpore e –potremmo dire- di stordimento di chi dedica la propria esistenza all’inseguimento di un ideale di sé e si smarrisce tra i vapori delle proprie fantasie di grandiosità.

Sono trascorsi davvero molti anni dalle prime teorizzazioni freudiane che vedevano Narciso protagonista; ciononostante per descrivere la società moderna possiamo parlare di un ritorno al mito del narcisismo, i cui tratti hanno soppiantato l’egemonia del disturbo isterico, in auge in epoca freudiana.

Studi recenti di psicologia sociale rivelano infatti l’allarmante incidenza del disturbo narcisistico di personalità nelle nuove generazioni; un dato che assume particolare rilievo soprattutto se confrontato con le generazioni passate.
Pertanto lo psicoanalista junghiano R. Johnson ha chiamato me-generation la moderna generazione che, come attraverso una rivoluzione copernicana, sembra aver scompaginato i valori normativi tradizionali, anteponendovi i bisogni narcisistici e le gratificazioni personali.

I principali criteri diagnostici distintivi del disturbo narcisistico spesso incrociano irrimediabilmente i “valori” moderni trasmessi dai mezzi di comunicazione di massa, propulsori di messaggi che incoraggiano l’apparenza, l’immagine, la superficialità, che spesso riscuotono maggior consenso della profondità e della sostanza.
È questa crescente tendenza che ha spinto molti autori (Cooper, 1998; Lasch, 1979; Rinsley, 1986; Stone, 1998) a parlare di “cultura narcisistica”, per sottolineare come nella società dei consumi, attenta alla produzione più che alla lealtà, alla forma più che alla sostanza, la differenza tra una sana autostima e le forme patologiche sfumi dietro il crescente bisogno di apparire.

Un processo di spersonalizzazione che sembra non tenere conto degli umani limiti, alimentando un mondo illusorio e pericolosamente irreale, caratterizzato da un’eccessiva preoccupazione per l’immagine e l’utilizzo del corpo come feticcio.
Come nota Gabbard (2002), lo sfruttamento dell’altro, indicante uno dei criteri diagnostici del disturbo di personalità narcisistica, è fortemente adattivo nella nostra società: riscuotere successo è diventato sicuramente più importante rispetto a valori come l’impegno, l’integrità, la sincerità ed il calore interpersonale.

Nella situazione culturale attuale ciascuno vive solo e per sé e gli scambi relazionali sempre più virtuali sono strumentali all’autocelebrazione. Per Recalcati (2012) “la nevrosi tende a schiacciare la dimensione singolare del desiderio nella necessità del riconoscimento. Preferisce il riconoscimento dell’Altro alla differenziazione”.

Ma è nell’impossibilità dell’incontro con il limite che i giovani moderni, come il povero Narciso, restano intrappolati nella propria immagine, ipnotizzati da se stessi, persi nelle increspature del lago in cui si vedono riflessi senza riconoscersi profondamente.
Poco avvezzi a tollerare la frustrazione, a sostenere la ferita di un divieto, di un rifiuto, vivono sull’onda di sentimenti mutevoli e transitori, preda di tempeste emozionali, immersi nel mito dell’onnipotenza e del godimento sfrenato. Recalcati (2012) avverte però, che ogniqualvolta “il godimento prende la via della compulsione sregolata e del rigetto della castrazione, non è mai pulsione di vita ma solo pulsione di morte, corsa rovinosa verso la propria distruzione”.

In questo contesto la relazione in senso esteso ne esce trasformata, danneggiata, svilita.

Galimberti (2004) considera l’incontro con l’altro e l’amore “il luogo della radicalizzazione dell’individualismo, dove uomini e donne cercano nel tu il proprio io […], amore indispensabile per la propria realizzazione come mai lo era stato prima, e al tempo stesso impossibile perché, nella relazione d’amore, ciò che si cerca non è l’altro, ma, attraverso l’altro, la realizzazione di sé”.

E se è vero che è sul contatto con l’altro che costruiamo la nostra identità, intrattenendo rapporti virtuali e strumentali possiamo solo alimentare la costruzione di identità fondate sull’illusione; identità fragili, forse bellissime, ma vuote.

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Sulle orme di Narciso.

by Romina Rubino 09/03/2014
written by Romina Rubino

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“Mi ammiri molto, veramente?” domandò al piccolo principe.
“Che cosa vuol dire ammirare?”
“Ammirare vuol dire riconoscere che io sono l’uomo più bello,
più elegante, più ricco e più intelligente di tutto il pianeta.”
“Ma tu sei solo sul tuo pianeta”

Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe.

Risulta particolarmente complicato, oggi più che in passato, parlare di narcisismo distinguendo un chiaro confine tra il normale senso di amor proprio, che pur è necessario per un’esistenza sana, e le forme patologiche. È difficile segnare cioè, uno spartiacque che separi il perdersi nel mondo meraviglioso delle illusioni, delle immagini, dei riflessi, dal mondo reale seppur meno idilliaco.

Nancy McWilliams, in “La diagnosi psicoanalitica” ha delineato con pennellate delicate ma precise il mondo interno di questo tipo di personalità, offrendoci un ritratto interessante e più autentico di Narciso.
L’autrice, attraverso un approccio originale che ci restituisce la misura della sofferenza con cui questi soggetti si confrontano quotidianamente, sottolinea “i costi interiori della fame narcisistica”, evidenziando “il terrore di inadeguatezza, vergogna, debolezza ed inferiorità” che attanaglia i narcisisti.
Aggiunge inoltre che “in ogni narcisista fatuo e grandioso si nasconde un bambino impacciato e vergognoso, e in ogni narcisista depresso e autocritico è latente un’immagine grandiosa di ciò che la persona dovrebbe o potrebbe essere.” (pag. 193)

Argomento ricorrente nella letteratura sul tema è proprio l’ipotesi che il narcisista sia stato un bambino particolarmente sensibile ai messaggi non verbali dei genitori, caratterizzato cioè da una capacità quasi soprannaturale di scrutare gli atteggiamenti degli altri e di carpirne le più recondite aspettative.
I genitori, incapaci di cogliere bisogni e desideri del bambino, lo tratteranno non tanto per ciò che egli è, quanto per ciò che dovrebbe essere, fornendogli in tal modo un’immagine interna distorta ed illusoria.

Per comprendere il vissuto della persona che sarà centrata sulla propria immagine, bisogna pertanto considerare il paradosso insito nella genesi di questo stile relazionale, che si connota per una scelta precoce di sacrificio di parti di sé sull’altare delle attese materne. Un sacrificio che, in una paradossale ritualità, verrà ripetuto nell’ossessiva ricerca di quello sguardo di amore autentico e disinteressato primariamente negato.

L’esperienza soggettiva del narcisista è, quindi, un profondo senso di vuoto interiore ed una mancanza di significato che questi individui cercano di affrontare rincorrendo continuamente conferme esterne circa il proprio valore, che dunque è perennemente in discussione.
La continua ricerca del proprio riflesso negli occhi dell’Altro è uno dei tratti comuni dei soggetti narcisisticamente strutturati, che sono spesso incalzati da sentimenti di vergogna ed invidia quando i riconoscimenti esterni scarseggiano. Come sottolinea McWilliams infatti, “Se sono interiormente convinto di avere qualche mancanza e di essere continuamente a rischio di venire scoperto delle mie debolezze, sarò invidioso di coloro che appaiono soddisfatti o che hanno quelle risorse che secondo me potrebbero compensare le mie mancanze.” (pag. 195)

Il narcisista dunque, come un Dorian Grey a cui risulta così penoso confrontarsi con i propri umani limiti, sembra preferire una sorta di patto col diavolo, che diviene il male minore di fronte all’alternativa insopportabile di guardare se stesso per ciò che realmente è.

Il mondo relazionale del narcisista appare difatti superficiale e frastagliato;  i rapporti sia amicali che amorosi sembrano bruciare ardentemente al fuoco dell’idealizzazione iniziale, per poi spegnersi altrettanto velocemente nell’implacabile incedere delle richieste di attenzioni altrui. Accade frequentemente che l’altro, dapprima idealizzato, una volta mostrato il suo vero volto, perda la sua attrattiva agli occhi del narcisista, che deluso, volge il proprio interesse verso nuove conquiste, dando vita ad un moto perpetuo che culminerà sempre nello stesso esito: un “modo di spremere gli altri per lasciarseli poi alle spalle svuotati” (Gabbard, 2002).

I ripetuti cambi di partner testimoniamo la vacuità della ricerca del narcisista, che per la profonda incapacità di riconoscere i sentimenti propri e di chi lo circonda, può trasformarsi in uno spietato sfruttatore. È in questo oscillare continuo tra sé e l’altro che Narciso drammatizza il proprio paradosso: “la sua disperata dipendenza dall’ammirazione altrui si accompagna a un estremo isolamento e all’incapacità di formare legami reali con le altre persone.” (Cohen et al., 2006)

Potremmo definire il narcisista come un bambino denutrito del cibo essenziale ai fini della crescita e dello sviluppo di sé: la relazione.

Se per conoscere se stessi è infatti necessario conoscere e ri-conoscersi nell’altro, di fatto colui al quale sarà stato negato un amore primario profondo, non sarà capace di riconoscersi e resterà incastrato, come Narciso, nella contemplazione di un riflesso che resta estraneo.
In accordo con McWilliams quindi “il costo più pesante di un orientamento narcisistico è l’arresto della capacità di amare”, drammatico risultato del “…messaggio [genitoriale] ambiguo di essere molto apprezzato, ma solo per il ruolo particolare che svolge” e che pone il bambino in una posizione di scacco da cui origina il timore di un rifiuto dovuto alla scoperta dei propri sentimenti ostili o egoistici.

Questi bambini vivono come sotto assedio, in uno stato di incessante valutazione, che anche quando si trasforma in ammirazione genitoriale, induce nel bambino il sospetto preoccupante di non meritare un tale apprezzamento e lo costringe a vivere ogni esperienza come performance in cui mostrare nuovamente il proprio valore.

I bisogni narcisistici dei genitori, creano nel figlio quella confusione emotiva che lo conduce in età adulta all’incapacità di discernere tra le proprie emozioni e gli sforzi per compiacere gli altri, una patina che impedisce a Narciso di ri-vedersi nel suo stesso riflesso.

Anche Mitchell (1993) ha offerto interessanti spunti di riflessione sull’argomento del narcisismo: “l’elemento cruciale –per questo autore-  è la funzione interattiva delle illusioni nella matrice relazionale del soggetto”, ovvero, le illusioni costituiscono l’unica forma relazionale in cui il soggetto riconosce se stesso.
Quanto più il genitore dipende dalle illusioni, tanto più esse assumono connotati di indispensabilità per il bambino, che avverte che l’unico modo per “essere visto” dal genitore è aderire alle sue illusioni (ad es. essere perfetto). In tal modo sostenere le illusioni genitoriali appare come l’unica via battuta che conduce al tanto agognato legame con le proprie figure genitoriali, così come con l’Altro; un percorso unico e senza alternative in cui le illusioni restano il doloroso prezzo da pagare per il contatto e la relazione (Mitchell, 1986).

La patologia assume pertanto valore e significato completamente diversi rispetto al passato. Questo modello spinge, infatti, ad una riflessione sulla funzione adattiva delle psicopatologie, riconoscendone nelle diverse rappresentazioni, la natura ripetitiva di pattern patologici ma funzionali al bisogno primario: quello relazionale. “Il desiderio come desiderio dell’Altro mostra che il desiderio umano ha una struttura relazionale. Esso proviene dall’Altro e si dirige verso l’Altro”. (Recalcati, 2012)

I modelli già sperimentati assumono quindi i connotati di un canovaccio a cui ciascuno resta fedele, in quanto considerato sicuro e conosciuto; la propria trama relazionale verrà messa in scena in ogni relazione, compresa, ovviamente, quella con il terapeuta.

Bibliografia

AA.VV. (2006), PDM. Manuale Diagnostico Psicodinamico. Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008.

Cohen, T. B., Etezady, H. M., Pacella, B. L. (2006), Il bambino vulnerabile. Armando Ed.

Dazzi, N., De Coro, A. (2001), Psicologia dinamica. Le teorie cliniche. Ed. Laterza, Roma

Eagle, M. N. (2012), Da Freud alla psicoanalisi contemporanea. Raffaello Cortina Editore, Milano

Fabbroni, B. (2008), Tra le braccia di Narciso. Ed. Univ. Romane, Roma

Freud, S., OSF [in particolare: (1914), Introduzione al narcisismo, tr. it. in OSF, Vol. VII, Boringhieri, Torino, 1985].

Gabbard, G. O. (1992), Psichiatria psicodinamica. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002

Galimberti, U. (2004), Le cose dell’amore. Feltrinelli, Milano

Giusti, E., Pacifico M., Fiume G. (2013), Confini terapeutici. Professionali e privati. Sovera Ed.

Giusti, E., Rapanà L. (2011), Narcisismo. Valutazione pluralistica e trattamento clinico integrato del disturbo narcisistico di personalità. Sovera Ed.

Kernberg, O. (1984), Disturbi gravi della personalità, Capp. 5 e 11, tr. it. Boringhieri, Torino, 1987.

McWilliams, N. (1994), La diagnosi psicoanalitica, tr. it. Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1999.

Mitchell, S.A. (1988), Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi, Parte IV, tr. it. Boringhieri, Torino, 1993.

Ovidio, Le metamorfosi, III Libro.

Recalcati, M. (2012), I ritratti del desiderio. Raffaello Cortina Editore, Milano

Sander, L.W. (2002), Pensare differentemente. Per una concettualizzazione dei processi di base dei sistemi viventi. La specificità del riconoscimento. tr. it. in Ricerca psicoanalitica, 2005, 3, pp. 267-300.

Stella, A. (2005), Lo specchio di Narciso e lo sguardo di Afrodite: esplorazioni psicoanalitiche sul narcisismo. Ed. Dedalo, Bari

Telfner, V. (2006), Ho sposato un narciso. Manuale di sopravvivenza per donne innamorate. Castelvecchi Editore, Roma

Westen, D., Shedler, J., Lingiardi, V. (2003), La valutazione della personalità con la SWAP-200. Raffaello Cortina Editore, Milano

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È proprio obbligatorio essere eccezionali?

by Romina Rubino 24/11/2013
written by Romina Rubino

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“È proprio obbligatorio essere eccezionali? Io non lo so. Ma mi tengo stretta questa vita mia e non mi vergogno di niente. C’è una dignità immensa, nella gente, quando si porta addosso le proprie paure, senza barare, come medaglie della propria mediocrità.” 

 Castelli di rabbia –  A. Baricco

Nel  nostra società sembra trovare una sempre maggiore diffusione una forma di malessere che spesso si esprime attraverso stati d’ansia, o addirittura veri e propri attacchi di panico, che colpiscono praticamente tutti: giovani, adulti, studenti, madri, uomini d’affari, personaggi dello spettacolo.
Ma perché?

Nei primi del ‘900 una delle problematiche più diffuse era l’isteria, che colpiva prevalentemente le donne, le più danneggiate dalla cultura restrittiva di quel periodo . Un disturbo così diffuso, al tempo, che Freud ha praticamente fondato gran parte delle sue teorie sugli studi del fenomeno.
Nella società dell’epoca, fortemente repressiva e caratterizzata da molti tabù (soprattutto di natura sessuale), i sintomi isterici avevano il senso di esprimere una sorta di ribellione dell’inconscio alle tante inibizioni che la società imponeva.

Oggi, nell’epoca dell’esaltazione della libertà, in cui ciascuno è esortato ad essere diverso, ad esprimere ciò che pensa, i sintomi isterici hanno chiaramente perso il loro senso. Nonostante ciò, lungi dall’essere una società equilibrata e sana, la nostra si configura come una società in cui l’ansia ci accompagna in troppi momenti della nostra vita, dilaga in ogni contesto, allontanandoci da noi stessi.

Viene da pensare dunque, che qualcosa non funziona come dovrebbe, che questi sintomi esprimono semplicemente un disagio diverso da quello del secolo appena passato, ma che pur provocano sofferenza.

Le pubblicità da cui siamo bombardati spesso propongono modelli fisicamente prestanti, sicuri di sé, felici: praticamente perfetti.  Ma siamo proprio sicuri che sia questa la felicità?

Nella cultura moderna, fondata sull’efficienza e sull’ideale della perfezione, il soggetto viene messo tra parentesi per diventare oggetto che mostra il proprio valore solo rispetto al ruolo che ricopre nella società in cui vive. Un processo di spersonalizzazione che non tiene conto di chi siamo davvero: esseri umani, unici, sensibili e perfetti nelle nostre imperfezioni.

Il risultato è che nel disperato tentativo di essere speciali, infallibili, spesso si finisce per mettere a tacere le proprie emozioni, soffocare i propri vissuti, seppellire intere parti di sé.

Ma se siamo inevitabilmente condannati all’imperfezione, mentre cerchiamo di raggiungere modelli che sono per definizione irraggiungibili, irreali, finti; se dobbiamo essere belli e sempre efficienti come macchine, allora l’ansia acquista un senso e un valore: ci ricorda chi siamo.

Ci dicono che dobbiamo essere eccezionali, diversi, distinguerci dalla massa. Ed è proprio così che, illudendoci di essere diversi, ci rendono tutti uguali. Omologati.

Allora vien da domandarsi: è davvero necessario essere eccezionali?
Oppure possiamo essere eccezionalmente noi stessi?

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Romina Rubino Psicoterapeuta Italiana a Londra
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