Romina Rubino
Psicologa, Psicoterapeuta Psicoanalista italiana a Londra
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Terapia EMDR per lavorare sul trauma

by Romina Rubino 29/01/2019
written by Romina Rubino

L’EMDR (dall’inglese Eye Movement Desensitization and Reprocessing, Desensibilizzazione e Rielaborazione attraverso i movimenti oculari) è un approccio terapeutico strutturato che si usa per il trattamento del trauma e per alleviare lo stress e i disturbi che spesso seguono le esperienze traumatiche.

Quando si usa

L’EMDR nasce come trattamento per il Disturbo Post Traumatico da Stress che segue generalmente, eventi traumatici gravi come abusi, aggressioni, violenze fisiche o psicologiche, incidenti.

Sono molti però i sintomi che possono essere generati o amplificati da un ricordo traumatico non elaborato per il cui trattamento l’EMDR si è rivelato molto efficace: ansia, attacchi di panico, disturbi alimentari, disturbi del sonno, fobie, lutti, malattie oncologiche e stati stressanti che si convertono in disfunzioni fisiche, come quelle sessuali.

Inoltre l’EMDR può essere utile anche  per migliorare le performance in atleti o persone che hanno bisogno di aumentare il loro livello di performance.

Ri-conoscere il trauma

Quando si parla di trauma tendiamo a pensare a grandi catastrofi come incidenti, gravi perdite, abusi sessuali, in realtà possono essere considerate traumatiche tutte le esperienze dolorose non elaborate che, seppur accadute molto tempo fa e quindi ormai passate, continuano a minacciare il nostro benessere presente.

Si tratta di situazioni molto più comuni di quello che potremmo immaginare, come essere stati presi di mira dai compagni di scuola con forme di bullismo, la perdita precoce di una persona cara, o anche l’aver vissuto un periodo di forte difficoltà economica, per citarne solo alcuni esempi.

Capita a tutti nella vita di fare esperienza di situazioni difficili e purtroppo anche molto dolorose, la mente è però equipaggiata per raccogliere emozioni, pensieri, sensazioni corporee (sì, anche il corpo ha una sua memoria!) ed elaborarle in un ricordo integrato con tutti gli altri che conserviamo.
Quando il carico emotivo è troppo però, il cervello fa fatica ad integrare la grande mole di informazioni ricevute tutte insieme velocemente, così nasce un trauma.

È semplice infatti riconoscere se un ricordo è stato traumatico per noi: quando ripensiamo ad una situazione e sentiamo che il nostro corpo si riattiva, che si scatenano dentro di noi intense sensazioni fisiche, abbiamo a che fare con trauma. Dimenticare diventa difficile, il ricordo di quel momento entra come in un cortocircuito che ci ossessiona e il vissuto doloroso si congela dentro di noi rendendo difficile l’elaborazione e generando ansia e sintomi anche molto forti.

Il trauma trasforma il nostro cervello

Per garantirci la sopravvivenza anche nei casi più estremi, il cervello si è dovuto organizzare creando, nel tempo, dei sistemi che ci consentono di rispondere in modo efficace alle situazioni pericolose.

Se, per esempio, mentre siamo in una foresta incontriamo un leone è molto probabile che la visione dell’animale sia preceduta da un fruscio di foglie. Il nostro cervello percepirà che ci potremmo lasciare le penne, sarà invaso dalla paura e farà in modo di evitare che quella situazione possa ripetersi. Come? Creando un’associazione automatica ed inconscia: ogni volta che sento il fruscio delle foglie devo stare allerta perché potrei essere in pericolo di vita.

Questa informazione di importanza vitale non può aspettare i lunghi tempi della parte razionale, per questo viene conservata nella parte inconscia ed automatica del cervello pronta ad entrare in azione al minimo segnale d’allarme. Il messaggio è così prezioso da essere conservato separatamente rispetto agli altri ricordi e resta quindi intoccabile dalla ragione e quindi dal linguaggio.

Come funziona l’EMDR

La chiave per entrare nel cuore del trauma è il corpo e la sua memoria.

Partendo infatti dalle sensazioni fisiche e dalle risposte emotive generate dal ricordo, si utilizzano i movimenti oculari o altre forme di stimolazione alternata destro/sinistra per ricreare la connessione tra quelle parti del cervello che sono state ‘scollegate’ dall’evento traumatico.

Attraverso questa stimolazione bilaterale, mentre il soggetto è concentrato sulle emozioni e sensazioni corporee legate al ricordo si può ricollegare la memoria fino a quel momento bloccata, stimolando nuove connessioni e significati. Dopo poche sedute generalmente si inizia a sperimentare un miglioramento della sintomatologia e le connotazioni negative legate al ricordo si allentano, per poi svanire, sostituite da sensazioni neutre o addirittura positive.

L’utilizzo del trattamento sia singolo, che integrato all’interno di un percorso terapeutico tradizionale, può fornire un adeguato sostegno e si rivela in molti casi di grande aiuto.

(La foto mostra l’iperattivazione del cervello di una donna con Disturbo Post Traumatico da Stress prima e dopo un trattamento di 4 sedute da 90 minuti di EMDR.)

Per maggiori informazioni: EMDR Italia, EMDR UK & Ireland, EMDR Europe.

29/01/2019 0 comments
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Cyberbullismo. I moderni bulli agiscono online.

by Romina Rubino 08/02/2017
written by Romina Rubino

Il cyberbullismo, o bullismo online, è un attacco profondamente offensivo e ripetuto nel tempo dove chi attacca si nasconde dietro uno schermo e una tastiera. Il luogo dell’aggressione è quindi “la rete”, il web, che data la sua natura, contribuisce a garantire al molestatore una forma di anonimato e e quindi di irreperibilità.

Queste due caratteristiche finiscono per creare un effetto psicologico di abbassamento degli standard morali ed etici cui invece facciamo implicitamente riferimento quando abbiamo un confronto diretto con l’altro.
Il non dover guardare in faccia e negli occhi la vittima rende molto più difficoltoso quel contatto empatico che invece dal vivo ci consente di percepire anche solo per un attimo quello che l’altro sta provando in quel momento.
Il risultato è un crescendo di aggressività e violenza che viene rovesciata a valanga e in massa sulla vittima di turno.

Le conseguenze di questo tipo di fenomeno possono essere devastanti e mostrare i loro effetti distruttivi non solo sulla vittima ma indirettamente anche sull’aggressore.
La realtà virtuale, infatti, crea nelle nostre menti una sorta di dimensione parallela in cui ciò che accade, non potendo collocarsi in uno spazio concreto, finisce in un limbo tra reale e non-reale: ciò che accade all’interno di uno spazio virtuale è come se non accadesse realmente sino in fondo.
Per lo stesso principio giocando ad un videogioco possiamo permetterci di uccidere virtualmente altre persone in quanto l’azione si svolge in una dimensione che è appunto virtuale e quindi non reale.

I social network si fondano però sul paradosso di trovarsi sì in una realtà virtuale, ma i cui attori, lungi dall’essere personaggi inanimati inventati per un videogioco, sono invece persone reali, con emozioni e vissuti! Quindi anche chi nella propria quotidianità non farebbe male ad una mosca può ritrovarsi a sfogare le proprie frustrazioni sul web, vomitando continuamente lamentele e commenti aggressivi rivolti al capro espiatorio di turno.
Qualcosa di simile a quello che accadde tempo fa a Miss Italia e che ho commentato in un precedente articolo.

Le conseguenze peggiori però sono più spesso a carico della vittima. Si tratta in genere di persone giovanissime che ormai partecipano attivamente alle dinamiche del mondo virtuale. Spesso sono adolescenti che stanno già combattendo le proprie battaglie per la formazione di una identità ancora fragile ed incerta.
L’umiliazione pubblica, talvolta nata da una vicenda reale ma altre volte completamente immotivata, è capace di scuotere profondamente le menti e di travolgere come uno tsunami le esistenze di ciascuno.   Il dolore che si prova può essere lancinante; la vergogna, la rabbia, la paura possono diventare così forti da rovinare completamente la vita di una persona.

Quando la vittima si trova anche in una fase delicata della vita, come l’adolescenza è, il peso del fenomeno può diventare così insopportabile che qualcuno, pur di sottrarsi a questa inevitabile e ripetuta violenza di gruppo, finisce per pensare o agire un suicidio. [Ho condiviso qualche riflessione sul suicidio qui e degli effetti della notizia di un suicidio qui]

Un toccante discorso di Monica Lewinsky  (che trovi qui sottotitolato in italiano) spiega quale possa essere “Il prezzo della vergogna” che paga chi è vittima di fenomeni di cyberbullismo: “La crudeltà verso gli altri non è una novità, ma online la vergogna tecnologica viene amplificata, senza limiti e permanentemente accessibile.”

Se nel mondo reale ci sono confini e quindi anche luoghi reali da cui potersi anche temporaneamente allontanare senza che nessuno sappia il nostro passato, sul web siamo continuamente esposti, sempre raggiungibili, perennemente vulnerabili. Ciascuno di noi può finire nel mirino dei cyberbulli e ciascuno di noi può trasformarsi in un molestatore seriale.

Di un simile linciaggio è stata vittima qualche giorno fa una giovane ragazza, Greta Menchi, la cui unica colpa è stata quella di essere stata convocata come giuria a San Remo… nell’immagine si leggono i commenti, chiaro esempio di cyberbullismo.

Ciò che colpisce davvero è la violenza, la foga, la completa assenza di contenuti razionali e il dominio di un’emotività fuori controllo e pericolosamente in cerca di un bersaglio.
Questo mondo in cui viviamo però è un mondo che ogni giorno contribuiamo a costruire, come l’oceano che in fondo è fatto da tante piccole gocce.

Il contatto con le nostre emozioni e la consapevolezza di cosa stiamo provando momento per momento sono la chiave che ci può aiutare non solo ad esprimere in modo costruttivo i nostri vissuti, ma anche ad empatizzare con la vittima di turno.

Quando ci troviamo di fronte a fenomeni di questo tipo, partecipare attivamente anche solo mostrando solidarietà alla vittima con un semplice commento può essere una piccola grande azione che magari risveglia il senso etico di chi attacca e comunque fa sentire chi è bersaglio della violenza meno solo.

Molto spesso basta poco per cambiare il mondo…

Questo è il link  al post pubblico di Greta Menchi per chi volesse lasciare un commento solidale.

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La libertà di potersi contraddire

by Romina Rubino 03/08/2016
written by Romina Rubino

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Ciascuno di noi durante il corso della propria vita costruisce e custodisce il proprio decalogo di comandamenti da seguire, quei pensieri e regole interne che implicitamente ci guidano ogni giorno nelle piccole e grandi scelte cui la vita ci sottopone.

Fin da piccoli impariamo a sperimentare, ad interagire con il mondo per osservarne le reazioni e trarre conclusioni sul suo funzionamento. È questo il processo istintivo che guida i bambini ad esempio a lasciar cadere qualcosa a terra per sperimentare gli effetti di quella caduta e registrare quale reazione si produce in conseguenza di quella specifica azione.
Creiamo cioè un insieme di regole che ci aiutano a predire il mondo e le persone che ci circondano.

Seguiamo queste regole, spesso inconsapevolmente, nutrendo la nostra mente e allungando la lista ogni giorno.
Guardando un film, leggendo un articolo o un libro, ascoltando una canzone, un programma televisivo, o andando ad una mostra nutriamo la nostra mente, allunghiamo la lista delle regole implicite che guidano il nostro cammino, ne confermiamo alcune e, più raramente, modifichiamo altre. Sono queste idee che ci rendono chi siamo, che ci dicono cosa è giusto o sbagliato, per cosa valga la pena combattere e cosa no, quali sono i comportamenti concessi, quali quelli da incoraggiare e quali quelli inaccettabili.
Costruiamo insomma una teoria interna e personalissima che ci aiuta a leggere noi stessi e ciò che ci circonda, un binario che spesso seguiamo ciecamente e con fiducia perché frutto di un processo che ci accompagna lungo tutto il corso della nostra vita.

Come tutto ciò che è prezioso, conserviamo “le tavole” con i nostri personali comandamenti nelle stanze più profonde della mente, perché possano essere tenute al riparo dal vento del cambiamento, persino dal nostro stesso sguardo.
Esiste una sorta di meccanismo di auto-conservazione di queste regole interne infatti, che ci spinge alla ricerca costante di conferme dei nostri valori, di quelle credenze su cui abbiamo fondato la nostra vita sino a quel momento. Cambiare quelle convinzioni, anche semplicemente metterle in discussione per scoprire se sono ancora valide, può essere un processo difficile e doloroso, poiché la posta in gioco è il binario stesso su cui abbiamo viaggiato sino ad oggi. Ad essere messo in discussione è il modo in cui abbiamo vissuto ed in cui viviamo.

Aprire la propria mente al nuovo può essere particolarmente faticoso in una società dove “ruota tutto intorno a te”: abbiamo liste di canali televisivi e playlist di musica personalizzati, abbiamo continui suggerimenti di argomenti “simili” a quello che abbiamo già visualizzato, abbiamo pagine Facebook ricche di contenuti che noi stessi scegliamo e ci uniamo a gruppi che la pensano esattamente come noi.

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Questo sistema però, seppur comodo e rassicurante, ci fa vivere nell’illusione che esista un’unica linea di pensiero su ogni argomento e che la maggior parte della gente (quella che poi definiamo normale) la pensi esattamente come noi. Ci sembra impossibile che altri, quelli che giocano nella squadra avversaria per definizione, ragionino in modo diverso, forse opposto al nostro. Siamo sconcertati ed increduli di come sia possibile che alcuni vedano le cose in un modo talmente diverso, che subito cataloghiamo come folle.
Siamo poco allenati a rapportarci con il nuovo e abbiamo sviluppato la tendenza difensiva a girare lo sguardo dall’altra parte per conservare intatto il nostro tempio fatto di credenze antiche e valori incontestabili.

Quando un elemento di novità, un pensiero alternativo riesce a irrompere oltre le mura dietro cui siamo barricati ci irrigidiamo e, sentendoci attaccati, finiamo per costruire muri sempre più alti, sempre più spessi pur di non rischiare di ascoltare qualcosa che potrebbe mettere in dubbio i nostri valori ormai dati per scontato.
Si tratta di un fenomeno molto più comune di quanto possiamo credere. Basta ascoltare la conversazione tra due persone appartenenti a gruppi politici diversi ad esempio, o anche scorrere le liste infinite di commenti al vetriolo sotto un articolo che solleva un tema specifico.
Perché diventa così importante convincere l’altro che abbiamo ragione?
Perché arriviamo persino a sentire di dover offendere e ferire chi sta esprimendo un punto di vista differente?
Perché affermare la nostra idea diventa una priorità talmente forte che a volte cadiamo nel paradosso di augurare il male a qualcuno nel tentativo di difendere un’idea religiosa o un ideale volto alla costruzione di un mondo migliore?

Io credo che esista una profonda differenza tra esprimere il proprio punto di vista e aver bisogno di affermare la propria visione del mondo. Ogni volta che ci scopriamo “accaniti” nell’affermare un concetto o esprimere un’opinione, forse è il caso di fermarci per chiederci perché abbiamo bisogno di convincere l’altro di aver ragione. Che importanza ha per noi quel tema e che senso ha impiegare così tante energie nel difendere quell’ideale.

La capacità di cambiare punto di vista, di cambiare la prospettiva con cui guardiamo il mondo, di metterci nei panni dell’altro è forse il più grande segno di intelligenza di cui disponiamo, poiché implica quella flessibilità mentale che è frutto di cultura, di ampiezza di orizzonti, di molteplicità di visioni.
Cambiare sguardo significa aprire i propri occhi, scoprire che il mondo può essere anche molto diverso da come lo abbiamo conosciuto finora. Significa rischiare, rischiare magari di scoprire che il tuo Dio, i tuoi dei, non sono gli unici, che esistono persone, esattamente come noi, che magari considerano buono quello che abbiamo sempre considerato cattivo.
Significa comprendere che se la vita è come una partita a scacchi non possiamo limitarci a contemplare solo le mosse che si possono muovere dalla nostra parte del tavolo. Se vogliamo giocare una partita vincente dobbiamo girare la scacchiera e cercare di vedere cosa vede l’amico con cui stiamo giocando.

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Ogni volta che leggo o sento dire che “c’è bisogno di coerenza” mi chiedo cosa si intenda con questa espressione, perché ho il sospetto che sia un modo per dire che non si può cambiare idea, che non si possono modificare i propri pensieri. Ho il sospetto che sia un modo per giustificare il proprio, seppur comprensibile, timore di andare dall’altra parte del tavolo a vedere come appare il mondo da quella prospettiva.
Forse può sembrare spaventoso, destabilizzante, ma credo che siamo fatti di opposti, di contrari e di pedine bianche e nere che possiamo scegliere di muovere ogni volta in modo diverso.
Desiderio e Paura sono la stessa cosa e ogni volta che scegliamo di dare voce al primo, dovremo avere il coraggio di ascoltare anche l’altra.
Crescere, dal mio punto di vista, implica inevitabilmente cambiare visioni del mondo, allargare l’ampiezza della propria visione, aggiungere punti di vista diversi. Per questo mi riservo sempre il diritto di contraddirmi in ogni momento.

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Psicologi italiani per Parigi. Dare un senso al dolore.

by Romina Rubino 19/11/2015
written by Romina Rubino

Parigi

Finora sono rimasta in silenzio di fronte allo sgomento dei recenti avvenimenti di Parigi, perché ritengo che le parole, quando non sono precedute da una riflessione, non solo non servano ma possano facilmente diventare velenose, pericolose forse quanto i fatti.

Silenzio.
Perché il silenzio, quando è riflessione e non indifferenza, resta per me la più alta forma di rispetto, l’obiettivo più difficile da conseguire in un tempo in cui vomitiamo continuamente e pubblicamente una sconfinata brodaglia informe di emozioni non elaborate, non pensate.
Nel mio silenzio ho raccolto tutte le mie emozioni, lo sgomento, la paura, la confusione, la rabbia, la frustrazione, il disgusto, lo sconforto, la disperazione, la tristezza. Ho cercato di tenerle tutte dentro di me, tutte insieme, in attesa che come un puzzle si ricomponessero in un quadro coerente, in un’unica grande immagine di speranza.

Quando qualche giorno dopo sono salita su un aereo tutte le tessere si sono mischiate tra loro e ho avuto paura, perché siamo sempre spaventati da ciò che non riusciamo o non possiamo comprendere. Le ho però tenute ancora, in silenzio, tutte mischiate dentro di me perché non erano ancora mature per essere espresse, perché il quadro non era ancora completo.

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Oggi sono qui a scrivere pensando ai fatti di Parigi, alla natura dell’uomo, alla vita e alla morte, a quale sia il senso delle nostre vite… ho ancora tante domande e credo che la più grande sia “Perché?”.
E se adesso vi aspettate l’ennesima spiegazione, mi spiace molto deludervi ma io non ce l’ho.
Ho rotto il mio silenzio solo perché in questo turbinio di inquietudine generale i pezzi del mio puzzle si sono in qualche modo riuniti… hanno trovato un senso. Non nelle parole ma nei fatti.

Il sito Psiche.org ha lanciato l’interessante iniziativa “Act for Paris” a cui partecipo e che continua a raccogliere le adesioni di psicologi e psicoterapeuti italiani che a titolo gratuito offrono la propria disponibilità a fornire un sostegno psicologico online per gli italiani che risiedono a Parigi e che stanno combattendo in questo momento con le loro paure, che stanno cercando di ricostruire il loro puzzle.

Personalmente penso che se c’è qualcosa di sensato in tutto questo caos è la speranza in un mondo migliore; se eventi come quelli di Parigi possono in qualche modo essere onorati e rispettati, il modo migliore per me è restare in silenzio e agire in modo costruttivo.
Che per ogni vittima ci possa essere una ri-nascita in ciascuno di noi.

Se l’odio di poche persone può generare altro odio così grande, pensiamo cosa può accadere se ognuno di noi mette a disposizione una piccola parte di sé, ciascuno secondo ciò che può, per creare un’ondata di sana, alta umanità.

parigi 3

Se sei uno psicologo o uno psicoterapeuta abilitato e sei interessato al progetto, puoi offrire il tuo aiuto come volontario. Se sei un cittadino italiano e conosci persone italiane che vivono a Parigi puoi segnalare l’iniziativa!

(Le foto che trovate nell’articolo sono state scattate da me qualche anno fa. Le ho scelte per rappresentare la grande dignità, libertà e vitalità di una città come Parigi che per me rappresenta tante cose ma che non riesco proprio ad associare ad immagini di morte e lutto. È il mio modo per rendere rispetto a  questa città e a chi le dà vita.)

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Tutti contro uno: oggi tocca a Miss Italia

by Romina Rubino 22/09/2015
written by Romina Rubino

 Orwell

Non so voi, ma la mia bacheca è piena di post di scherno contro la gaffe della neo-eletta Miss Italia.

La guerra, mondiale o no che sia, non è certo una cosa su cui si possono ammettere sviste, sono d’accordo.

Certo però fa riflettere il fenomeno che si scatena in circostanze come questa. Un po’ mi spaventa il sadismo con cui in massa ci scagliamo pubblicamente contro una 18enne che si ritrova a dover rispondere a una domanda inaspettata, in prima serata, in un contesto dove quello che ti aspetti di dover mettere in mostra non sono certo le tue competenze!

Non è un modo per difendere ciò che ha detto (anche perchè ha spiegato successivamente da dove è nata la gaffe), è però un modo per riflettere su come questa vita “social” non è poi molto sociale, empatica, comprensiva.

Mi sembra che siamo tutti pronti a scovare lo sventurato del giorno che ha fatto l’errore fatale di perdere il controllo per un attimo ed ecco che si ritrova alla pubblica gogna e gli aguzzini siamo proprio tutti noi!
Johnny Depp perchè ha messo su qualche kg e si permette pure di presentarsi in pubblico (!), la presentatrice perchè perde l’equilibrio e cade da tacchi vertiginosi, l’attrice pizzicata in costume con la cellulite…  ed ecco che ci ritroviamo tutti contro uno, tutti seduti comodamente a casa nostra, illusi di essere protetti dietro ad uno schermo che forse ci rende un po’ meno umani, persone peggiori di quello che realmente siamo.

Poi davvero ci meravigliamo di fronte al bullismo on-line e ci indigniamo quando un adolescente si suicida per questo? E da dove avranno mai imparato questi brutti ragazzi di oggi?

Ogni giorno, anche e sopratutto con le nostre azioni più piccole, contribuiamo a costruire un certo tipo di mondo.
Anche quando ci sembra di fare una cosa di poco conto come pubblicare qualche post su un social, chiediamoci cosa stiamo facendo, di che tipo di messaggio ci stiamo facendo portatori e se il mondo che stiamo contribuendo a costruire è un mondo vivibile per noi e per i nostri eventuali figli.
Perchè questo fenomeno della “pubblica gogna” è un po’ una ruota e se oggi ci è salita una perfetta sconosciuta, domani potrebbe toccare a noi.

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La grande bugia: la “Teoria gender”

by Romina Rubino 07/09/2015
written by Romina Rubino

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“La realtà dell’altro non è in ciò che egli ti rivela, ma in ciò che non può rivelarti.
Perciò, se vuoi capire l’altro, non ascoltare ciò che egli ti dice,
ma piuttosto ciò che egli non dice.”
K. Gibran

 

Con l’avvicinarsi dell’apertura delle scuole sento l’esigenza di contribuire anche io a fare un po’ di chiarezza rispetto a quello che definirei “il fenomeno gender”.
Già numerosi colleghi infatti si sono dedicati alla questione per cercare di mettere un po’ di ordine tra le idee confuse e volutamente distorte che ormai circolano pericolosamente su internet da qualche tempo.

Nota come “teoria gender”, si è diffusa l’assurda convinzione che la scuola, il Ministero della Salute e i professionisti della salute mentale siano improvvisamente e tutti insieme impazziti e si siano coalizzati per inculcare nelle menti dei bambini idee come “cambiare sesso, masturbarsi, visionare materiale pornografico”, distorcendo irrimediabilmente le loro menti.
Letto così sembra davvero strano in effetti, potremmo dire che c’è chiaramente qualcosa che suona almeno come insolito. Ma come è possibile che tante persone, anche di buon senso, si siano lasciate contagiare da queste false informazioni, contribuendo alla diffusione di quella che è ormai diventata un’ondata di allarmismo?

Probabilmente questo fenomeno ha trovato grande diffusione perché l’oggetto della discussione tocca temi con cui la nostra società non ha ancora fatto del tutto i conti come la sessualità, ma soprattutto perché la questione riguarda il tema delicatissimo della protezione e della corretta educazione dei figli, che richiama fantasmi e paure ataviche come quella di non essere dei genitori sufficientemente buoni.

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Mi sembra necessario fare chiarezza sui fatti, su cosa cioè è accaduto.

La cosiddetta “Teoria gender” è un’invenzione, una bufala, una bugia!
Psicologi, psicoterapeuti, sociologi, professionisti della formazione e dell’educazione, insomma, esperti del settore non fanno altro che dichiararlo e scriverlo a chiare lettere ovunque. Eppure continuano a fioccare post su Facebook creati probabilmente da sconosciuti che diffondendo falsità, incitano i genitori a difendere i loro figli dalla scuola (!) luogo deputato alla formazione e all’educazione.
Ma le bugie che “funzionano” e cioè che trovano facile diffusione tra chi non ha voglia di approfondire, sono quelle che partono da una realtà sulla quale vengono costruite delle falsità, tali per cui l’informazione che ne emerge alla fine è completamente distorta.

La grande bugia intitolata “teoria gender” nasce da una distorsione appunto delle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sui Corsi di educazione emotiva, affettiva e sessuale che sono già attivi nelle scuole e che sono stati implementati nel ddl “Buona scuola”.
Questi corsi educativi, lungi dall’essere “lezioni di sesso” con tanto di dimostrazioni e supporti pornografici, hanno invece lo scopo di educare bambini ed adolescenti all’affettività e alla sessualità, facendo chiarezza su questi temi attraverso un’informazione corretta e scientifica.
Non mi dilungherò sui dettagli e sul confronto tra la verità e le bugie diffuse, in quanto numerosi colleghi hanno già trattato questi aspetti in modo egregio (lascerò i link di alcuni interessanti articoli alla fine).
Vorrei invece condividere alcune riflessioni sui temi implicati in questo strano fenomeno.

Il primo riguarda l’“educazione sessuale”, l’aspetto probabilmente più controverso e che ha suscitato il maggior clamore e anche la maggior confusione. Ma perché?
La sessualità ed il piacere ad essa collegato sono aspetti normali della vita di ogni individuo sano. Sembra questa un’affermazione inutile e scontata e invece sento proprio l’esigenza di sottolinearla, poiché a dispetto della sempre più tecnologica modernità in cui siamo immersi, la sessualità resta purtroppo ancora un argomento di cui è meglio non parlare: un tabù.
Così lo definì Freud agli inizi del ‘900 e, forse anche con la complicità di una certa cultura che definirei di integralismo religioso, sembra che a distanza di più di un secolo le cose non siano del tutto cambiate.

Esiste ancora, infatti, una parte della popolazione che associa il sesso e la sessualità a qualcosa di “sporco”, qualcosa di cui vergognarsi, di cui essere imbarazzati e quindi da nascondere.
Insomma, non se ne deve parlare. Come se non parlando di un argomento, rendendolo tabù appunto, questo scomparisse come per magia insieme a tutte le sue implicazioni.

Invece quello che accade nella realtà è che, spinti da una curiosità che è innata, naturale, spontanea i ragazzi cercano di scoprire, di informarsi con i mezzi che hanno a disposizione su vari temi, tra cui anche la sessualità. Da qui una recente indagine che ci rivela come le principali fonti di informazione da cui gli adolescenti attingono per informarsi sulla sessualità sono gli amici, i mass media e ovviamente internet e solo in ultima posizione troviamo la famiglia.

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Come vorresti che i tuoi figli fossero informati rispetto alla sessualità?
Attraverso dei corsi di educazione sessuale scolastica tenuti da professionisti del settore, esperti con strumenti idonei e pensati per le diverse fasce di età, insegnanti formati e psicologi con competenze nell’ambito della psicologia dello sviluppo?
O ritieni più idoneo che tuo figlio si informi da solo su internet, tra un sito pornografico ed un consiglio di un coetaneo che probabilmente ne sa meno di lui? E che tipo di immagine della sessualità e della figura della donna viene veicolata oggi su internet?
Direi un’immagine falsata, finta, irreale, distorta, insana, irrispettosa.

Come sottolinea l’OMS i problemi legati alla disinformazione in ambito sessuale sono numerosi e di una certa gravità:
“La Regione Europea dell’OMS si trova di fronte a numerose sfide riguardanti la salute sessuale: i tassi crescenti dell’HIV e di altre infezioni sessualmente trasmesse (IST), le gravidanze indesiderate in adolescenza e la violenza sessuale, solo per citarne alcune. Bambine e bambini, ragazze e ragazzi sono determinanti per il miglioramento della salute sessuale generale. Per maturare un atteggiamento positivo e responsabile verso la sessualità, essi hanno bisogno di conoscerla sia nei suoi aspetti di rischio che di arricchimento. In questo modo saranno messi in grado di agire responsabilmente non solo verso se stessi ma anche verso gli altri nella società in cui vivono.”

Ignoranza e disinformazione sono inoltre alla base di fenomeni come discriminazione e bullismo, perché tutto ciò che non conosciamo è automaticamente categorizzato come “altro da noi”, “diverso” e quindi pericoloso.
La strategia che si propone di adottare nelle scuola ha come obiettivo quello di favorire una cultura del rispetto delle differenze che è alla base di ogni società civile!
Insegnare ai bambini che viviamo in un mondo fatto da tante persone simili ma diverse, ciascuna speciale per la propria soggettività significa lavorare per la costruzione di un mondo migliore.
Insegnare che si può essere alti, bassi, magri o paffuti, maschi o femmine, omo o eterosessuali, con le orecchie a sventola o col naso pronunciato, coi capelli rossi, biondi o scuri, con la pelle bianca o nera, significa creare un buon terreno dove ciascuno potrà crescere semplicemente essendo se stesso, senza doversi vergognare di come la natura l’ha fatto, senza doversi sentire a disagio per ciò che sente dentro di sé.
E significa anche che questa società non accetta fenomeni di discriminazione di alcun tipo, in quanto rispettosa dell’altro anche se, o proprio perché diverso.

Non si tratta di “far diventare omosessuali tutti i bambini” (!) ma di costruire un ambiente dove bambini e adolescenti possano trovare uno spazio di ascolto accogliente e sereno dove depositare le proprie curiosità, i dubbi, le domande; uno spazio abitato da adulti competenti e pronti a rispondere con affettività e preparazione anche alle domande che riguardano l’orientamento sessuale.

Può creare qualche difficoltà un figlio che fa coming out, che dichiara cioè di essere omosessuale, come può creare sofferenza un figlio che magari non vuole studiare per proseguire una professione che si tramanda da generazioni nella propria famiglia, ad esempio. Ma quando questo accade è un diritto di quel ragazzo/a essere ciò che sente, sviluppare se stesso per ciò che è senza essere discriminato.
Ed è un nostro dovere contribuire alla costruzione di un ambiente e di una società dove questo ragazzo, magari nostro figlio, non debba sentirsi malato, sbagliato e quindi emarginato ed escluso solo perché segue se stesso.

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Quando i bambini sono disinformati, diseducati alla diversità, all’alterità che ciascuno di noi in qualche modo rappresenta per l’altro, si finisce in una società in cui le minoranze divengono vittime di bullismo e di discriminazione, società in cui non importa più chi sei, qual è la tua storia, quanti passi hai percorso o quanto hai sofferto, ma in cui vieni giudicato solo perché sei donna (e quindi incapace), o sei nero (e quindi inferiore), o sei piccolo (e quindi stupido)…

I bambini a cui oggi qualcuno vorrebbe sottrarre il diritto ad una corretta educazione sessuale, emotiva ed affettiva, saranno i bulli di domani, vittime di una disinformazione causata dai genitori che oggi sono disinformati e scettici forse proprio perché a loro volta non hanno ricevuto idonea informazione ed educazione sul tema della sessualità e della parità dei diritti.

Nell’informazione (persino quella sulla sessualità!) non c’è nulla di sbagliato, perché se c’è qualcosa che crea danno, malessere, o nevrosi (per dirla alla Freud) è ciò di cui non si può parlare, che resta chiuso, nascosto, inespresso.
Spesso mi sembra che i dubbi e le perplessità suscitate da taluni rispetto al tema dell’educazione affettiva e sessuale nelle scuole siano dettati più da una carenza personale, e cioè che questa onda di allarmismo abbia avuto origine da persone che evidentemente non hanno avuto occasione di sviluppare un rapporto sano ed equilibrato con la propria sessualità e che per questo, spero almeno in buonafede, trasformino in “abominio” quella che è semplicemente una corretta e sana educazione alla civiltà.

Alla base della salute mentale (nostra e quindi anche dei nostri figli) c’è la parola. Dare parole alle emozioni, alle sensazioni, alle domande, fornire informazioni e uno spazio di ascolto accogliente e competente non è mai sbagliato ed è anzi fonte di arricchimento e segno di salute mentale per il singolo e di civiltà per il sociale.

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Inside out. L’elogio delle emozioni.

by Romina Rubino 14/08/2015
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Le emozioni ricoprono un ruolo fondamentale nelle nostre vite, guidano la percezione del mondo e partecipano attivamente alla costruzione della memoria colorando i nostri ricordi più importanti.
È noto infatti che le informazioni memorizzate “emotivamente”, accompagnate cioè anche da una carica emotiva, si fissano meglio nella nostra mente con il risultato che riusciamo a ricordare quegli eventi più facilmente.

Ma l’importanza delle emozioni per una buona salute mentale è una scoperta relativamente recente. Ancora oggi infatti capita di rintracciare i retaggi di quella visione predominante nel pensiero occidentale dei primi del ‘900 che concepiva le emozioni come una fastidiosa interferenza al tanto agognato pensiero razionale.
Prevaleva infatti, in quell’epoca ancora non troppo lontana, l’idea che le emozioni potessero offuscare una visione oggettiva del mondo, interferendo con quello che invece era definito il “pensiero scientifico”, cioè con la verità.

Col passare degli anni e grazie alle numerose ricerche scientifiche tale visione si è completamente capovolta, rivelando invece la funzione fondamentale che le emozioni rivestono nei processi di percezione ed organizzazione delle informazioni. Numerose ricerche hanno dimostrato infatti come l’umore (cioè l’emozione prevalente in un preciso momento) influisca non solo su come percepiamo ciò che ci accade ma anche su cosa ricordiamo. Sembra infatti che siamo più propensi a ricordare eventi ed informazioni che sono in sintonia col nostro umore, per cui se siamo tristi avremo una tendenza a richiamare dalla memoria una serie di circostanze tristi, mentre quando siamo felici tenderemo a focalizzarci sui momenti felici del nostro passato.

Insomma, sembra tutta una questione di colori… almeno in questo modo hanno voluto metterla gli autori del bellissimo ed emozionante film della Disney-Pixar “Inside out”, in uscita a breve nelle sale italiane.

Il film ha come protagoniste proprio le 5 emozioni di base Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura, Disgusto che si contendono alternativamente la guida della mente della giovane protagonista, una ragazza di 11 anni alle prese con un periodo particolarmente difficile della propria vita: il passaggio alla pubertà.

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L’aspetto cruciale che il film affronta in modo egregio e particolarmente divertente è appunto l’importanza del contatto con le emozioni: quella capacità cioè di riconoscere e rispettare lo stato d’animo  prevalente in ogni momento.
Le emozioni lavorano intensamente dentro di noi ma anche fuori, apportando un grosso contributo alla formazione delle relazioni sociali.
Gli studi mostrano infatti come la nostra identità è definita da specifiche emozioni, che modellano ciò che percepiamo e come esprimiamo noi stessi nel mondo, evocando risposte anche negli altri. La rabbia ad esempio, come è mostrato in numerosi studi, ci mobilita nel riconoscere meglio le situazioni di ingiustizia e ci rende particolarmente attivi nel cercare soluzioni per porvi rimedio.

Ma la vera protagonista del film è Tristezza, un’emozione che troppo spesso tendiamo ad evitare, che siamo abituati a mettere a tacere senza ascoltare le sue ragioni.
Spinti forse da una tendenza anche culturale che sembra dettarci il comando perentorio “sii felice”, dimentichiamo che anche la tristezza ha una sua funzione, un ruolo. Quest’emozione spesso bistrattata fa parte integrante del “corredo emozionale” di cui siamo dotati alla nascita ed in fondo è proprio quando siamo tristi che ci fermiamo a riflettere su cosa ci sta accadendo e partiamo alla ricerca delle cause di questo senso di malessere.
Potremmo dire che se la gioia e la rabbia sono le emozioni dell’azione, la tristezza è l’emozione della riflessione. Perché quando senti che Tristezza prende il comando, comprendi che è giunto il tempo di fermarsi e sentire, dialogare con te.
Forse siamo portati però ad associare la tristezza ad uno stato caratterizzato da inattività, passività, da assenza di azioni utili. Nel film, ma anche nelle nostre vite, la tristezza invece sa essere anche azione: spinge le persone a stare più a contatto con se stesse quindi anche tra loro, per questo è soprattutto quando questa emozione prevale che le persone si uniscono, si stanno accanto.

Le emozioni  letteralmente ci guidano su un cammino che altrimenti percorreremmo come ciechi; si tratta di un processo che illumina il nostro presente ma anche il nostro passato e che pervade tutta la nostra identità.
“Inside out”, con un approccio ironico ed emozionante allo stesso tempo, offre un interessante spunto di riflessione sulla nostra vita emotiva, ci riavvicina e riappacifica con tutte le nostre emozioni, rivendicandone l’importanza.

 

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Non rimandare a domani cio’ che puoi fare oggi: perche’ procrastiniamo?

by Romina Rubino 26/06/2015
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È strano come i detti che i nostri nonni ci hanno tramandato possano riscoprirsi utili ancora oggi, rivelando una saggezza che evidentemente ha attraversato se non tutta l’umanità una buona parte di essa. Procrastinare, la tendenza cioè a rimandare ad un fantomatico “domani” i nostri impegni, è un’inclinazione a cui tutti siamo soggetti e da cui dobbiamo imparare a difenderci.

Spesso quando parliamo di qualcuno che “procrastina”, che rimanda continuamente le proprie scadenze, abbiamo in mente una persona pigra, uno scansafatiche che non ha abbastanza voglia di fare. Al contrario, gli studi dimostrano che le persone con questa tendenza sono invece quelle più severe con se stesse, più attente al giudizio che gli altri hanno di loro: in questo tipo di persone prevale il timore di sbagliare, il desiderio idealizzato di svolgere qualsiasi compito in modo perfetto. È questa la tesi di J. Ferrari, docente di Psicologia della De Paul University, che dopo aver dedicato gran parte della sua carriera allo studio del fenomeno, ha pubblicato un libro dal titolo “Stai ancora rimandando qualcosa? Manuale per non aver rimpianti su ciò che va fatto”.

Secondo gli studiosi quindi i “procrastinatori seriali”, lungi dall’essere individui pigri e poco attivi, sono invece quelli che definiremmo dei “perfezionisti”, soggetti cioè che coltivano la segreta fantasia di svolgere ogni compito in modo impeccabile, perfetto. In fondo, finché una cosa resta incompiuta è potenzialmente perfetta e finché non la realizziamo concretamente non potremo mai essere giudicati per aver fatto un cattivo lavoro. Quante volte preferiamo restare fermi, quante volte non ci permettiamo neanche di provare a realizzare un sogno per paura di scoprirci imperfetti, limitati, semplici e umani, come tutti gli altri?

Secondo gli psicologi americani infatti, la tendenza a procrastinare è più forte nei “perfezionisti”, che tendono a dare il meglio di sé, ad ottenere il massimo della concentrazione solo quando la scadenza della consegna di un lavoro è davvero imminente. In questi casi, qualora il compito dovesse avere qualche carenza, potremo imputarne la causa alla mancanza di tempo a disposizione più che ad un nostro limite personale. Ma, come sottolinea C. Andreou dell’Università dello Utah, nel suo libro “Il ladro di tempo”, rimandare continuamente i propri impegni, perdere tempo non conduce altro che ad un accumulo dei compiti da svolgere soprattutto per chi è coinvolto in progetti lavorativi a lungo termine. Si genera perciò, una sorta di spirale senza fine  che ci fa percepire noi stessi come sempre più incapaci di affrontare la vita, con un inevitabile abbassamento del livello di autostima ed una concreta diminuzione della capacità produttiva.

La tendenza a procrastinare però, spesso è talmente ben radicata dentro di noi che eliminarla può rivelarsi complicato in quanto coinvolge tutti aspetti della vita dei soggetti che ne soffrono. Uno dei problemi che contribuiscono a farci rimandare a domani ciò che dovremmo fare oggi è la paura: del fallimento, dei cambiamenti, delle maggiori responsabilità che una nuova situazione può comportare nella nostra vita. Il non poter controllare il futuro, non poter prevedere cosa ci aspetta, ci fa sentire un po’ come Alice nel paese delle meraviglie, stupiti cioè da un nuovo mondo ma allo stesso tempo terrorizzati per cosa potrebbe accadere, per tutte le novità dalle quali ci possiamo sentire travolti. In questi casi, il primo passo è fondamentale e solo dopo che ci siamo incamminati su un nuovo percorso possiamo guardarci indietro e forse anche sorridere di noi, delle nostre esitazioni. Una volta che abbiamo compiuto il primo passo, molto spesso, se c’è qualcosa di cui ci pentiamo è solo di non averlo fatto prima!

Un altro aspetto che minaccia la nostra capacità di portare a termine un progetto è non avere le idee chiare rispetto a quali sono i nostri obiettivi. Diventa quindi fondamentale organizzare al meglio il lavoro attraverso un piano d’azione che preveda tanti piccoli obiettivi da svolgere con scadenza regolare, magari un paio ogni giorno. La tendenza ad avere in mente un grande progetto infatti, ci spinge non solo a percepirlo come un’enorme mole di lavoro impossibile da svolgere, ma anche ad inserirlo nella categorie della “cose da svolgere nel futuro” che si trasforma velocemente in “mai”. Diventiamo così facili “prede del sistema”: ci ritroviamo alla fine della giornata a renderci conto che non siamo riusciti a concludere niente e che invece abbiamo trascorso tutto il tempo a ciondolare tra una notizia di Facebook, una foto su Instagram o qualche tweet. È proprio in questi meccanismi infatti che si inseriscono i giganti del web, che da lungo tempo hanno studiato, compreso e imparato a sfruttare queste tendenze psicologiche, trasformandoci talvolta in vittime più che fruitori di un servizio.

Si tratta di una tendenza a preferire una soddisfazione immediata del desiderio che trova soddisfacimento in tante piccole, veloci quanto inutili gratificazioni che si trasformano, a lungo andare, in un ostacolo al nostro successo! Una strategia utile invece può essere quella di programmare delle pause durante la giornata in cui possiamo dedicare un tempo limitato a controllare i messaggi degli amici, o dedicarci ad una lettura frivola, o semplicemente a guardare un breve video divertente. L’idea è che ci possiamo concedere delle piccole distrazioni durante momenti precisi che stabiliremo noi, purché queste non finiscano per occupare la maggior parte della nostra giornata, minando così i nostri sogni e quindi la nostra felicità presente e futura. Perché se continuiamo a ripeterci che “tanto c’è tempo domani” i nostri sogni resteranno a marcire nel famoso cassetto e finiremo per sentirci frustrati e delusi da noi stessi e dalla vita.

Il tempo della felicità è il presente, ma quando si tratta di svolgere un compito tendiamo sempre a pensare che domani saremo più bravi, più preparati, più esperti. Tendiamo a procrastinare non solo perché questo mette a tacere temporaneamente i nostri sensi di colpa, ma anche perché ci illudiamo che domani saremo improvvisamente e magicamente persone migliori. Alcuni studi hanno dimostrato inoltre che siamo inclini a sottostimare il tempo che impiegheremo per svolgere attività future; è per questo motivo che rimandiamo fino all’ultimo pensando di avere ancora tempo, ritrovandoci poi a dover studiare la notte prima dell’esame, o a lavorare freneticamente nei giorni che precedono una scadenza.

Un interessante studio del Journal of Consumer Research rivela che dietro l’atteggiamento del procrastinare si cela una particolare inclinazione a categorizzare il tempo in modo illogico. Secondo i ricercatori infatti tutti gli impegni che quotidianamente incontriamo vengono automaticamente categorizzati in termini di “presente” e “futuro”. Quando un compito da svolgere ricade nella categoria “presente” abbiamo più probabilità di iniziare a lavorare a quell’obiettivo subito. Al contrario, quando la scadenza di un compito da svolgere ricade nella nostra categoria mentale “futuro”, viene processato come qualcosa che “un giorno” faremo. Inutile dire che “il poi è parente del mai” e quel “giorno” tenderà a non arrivare, appunto, mai. Se esiste un trucco quindi, è quello di cercare di far ricadere le nostra scadenze nel presente, non la settimana prossima, non il mese prossimo, ma oggi.

Questi atteggiamenti che mettiamo in atto in modo inconsapevole si trasformano silenziosamente in tanti piccoli atti di sabotaggio che ogni giorno, goccia dopo goccia, ci conducono ad una vita infelice. Il principale ostacolo al raggiungimento dei nostri obiettivi siamo proprio noi stessi! Esserne consapevoli è il primo passo per riconoscerli e poter agire attraverso strategie che ci aiutino ad evitarli.

Ho procrastinato circa un mese prima di scrivere questo articolo, ma oggi  ho deciso che dovevo smettere di procrastinare e sono riuscita a portarlo a termine. Segui anche tu il mio esempio e prova oggi a concludere o ad iniziare qualcosa che rimandi da tempo!

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Sogni: messaggi dall’inconscio

by Romina Rubino 09/06/2015
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Sin dall’antichità il sogno ha affascinato l’uomo: il mistero che sembra celato nei simboli onirici ha coinvolto gli studiosi più autorevoli a partire dagli scritti pervenuti dall’antico Egitto sino al grande lavoro svolto da S. Freud. Con ‘L’interpretazione dei sogni’, il padre della Psicoanalisi ha rivoluzionato l’approccio all’universo onirico, che in breve tempo si è trasformato da gioco popolare a scienza vera e propria.
Lontani ormai dal considerare il sogno come un messaggio divino, ancora oggi subiamo il fascino di questo strano mondo, che continua a celare in piccoli simboli grandi significati.

Tutti sogniamo, più precisamente durante la fase REM (Rapid Eye Movement – Movimenti Oculari Rapidi), momento in cui il cervello integra ed elabora le informazioni acquisite durante la veglia. Infatti, più che affermare di non sognare, sarebbe corretto dire che non si ricordano i propri sogni: in questi casi spesso è sufficiente ripetere più volte il sogno al risveglio, ripercorrendo le immagini e le sensazioni provate.

Volgere uno sguardo al nostro mondo onirico ci permette di entrare in relazione diretta con la parte più profonda di noi, da cui si generano le emozioni e in cui sono custoditi quei ‘segreti’ che non riusciamo a rivelare coscientemente neanche a noi stessi.
La tecnica psicoanalitica per interpretare i sogni è quella delle “libere associazioni” che consiste nel verbalizzare pensieri, ricordi e sensazioni liberamente. È necessario partire da una descrizione del sogno con parole il più possibile spontanee, per poi soffermarsi sugli elementi che più ci colpiscono.
In genere l’attività onirica compone il sogno a partire da immagini legate a situazioni a cui magari non abbiamo prestato attenzione durante la giornata, ma che vengono riutilizzate e rielaborate nel sonno. Attraverso le libere associazioni possiamo interpretare il linguaggio simbolico che il sogno utilizza per celare qualcosa di importante e significativo, ma che è fuori dal controllo della nostra mente conscia.

È importante sottolineare che interpretare un sogno richiede comunque un’adeguata formazione clinica e teorica. Sebbene sia utile porre attenzione al proprio mondo onirico, è sempre meglio rivolgersi ad un professionista in possesso degli strumenti necessari per giungere, insieme, ad una corretta interpretazione del sogno e quindi del nostro mondo interiore.
La simbologia del sogno, infatti, è sempre relativa e nell’interpretazione bisogna tener conto di vari aspetti: quello culturale e quello legato alla personalità di chi sogna.
Anche se ogni cultura fornisce elementi condivisi tra le persone che vi appartengono, nel sogno questi simboli vengono mescolati e riletti alla luce delle percezioni soggettive e della storia personale. Quindi, lo stesso simbolo onirico, anche sognato da due persone appartenenti alla stessa cultura, potrebbe non necessariamente mantenere lo stesso significato.

L’interpretazione dei sogni ci avvicina al nostro mondo interiore, apre le porte ad una conoscenza più profonda di noi stessi, della nostra personalità, del nostro inconscio.
Quando sogniamo, scriviamo come con una penna su un foglio bianco: lo strumento che tutti utilizziamo è lo stesso, ma ognuno conserva la sua calligrafia ed il suo stile, che è e resterà sempre unico.

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Lo sforzo del desiderio

by Romina Rubino 27/05/2015
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“ Un uomo mentre camminava vide su una siepe un piccolo buco in un bozzolo; incuriosito si mise ad osservare e vide una farfalla che si sforzava per uscire da quel piccolo buco.
Dopo molto tempo, sembrava che essa si fosse arresa ed il buco fosse sempre della stessa dimensione.
Sembrava che la farfalla ormai avesse fatto tutto quello che poteva, e che non avesse più la possibilità di fare niente altro.
Allora l’uomo decise di aiutare la farfalla: prese un temperino ed aprì il bozzolo. La farfalla uscì immediatamente.
Però il suo corpo era piccolo e rattrappito e le sue ali erano poco sviluppate e si muovevano a stento.
L’uomo continuò ad osservare perché sperava che, da un momento all’altro, le ali della farfalla si aprissero e fossero capaci di sostenere il corpo, e che essa cominciasse a volare.
Non successe nulla! In quanto, la farfalla passò il resto della sua esistenza trascinandosi per terra con un corpo rattrappito e con le ali poco sviluppate. Non fu mai capace di volare.
Ciò che quell’uomo, con il suo gesto di gentilezza e con l’intenzione di aiutare non capiva, era che passare per lo stretto buco del bozzolo era lo sforzo necessario affinché la farfalla potesse trasmettere il fluido del suo corpo alle sue ali, così che essa potesse volare.

A volte, lo sforzo é esattamente ciò di cui abbiamo bisogno nella nostra vita.
Se vivessimo la nostra esistenza senza incontrare nessun ostacolo, saremmo limitati.
Non potremmo essere così forti come siamo. Non potremmo mai volare! ”

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Lo sforzo è uno di quei concetti per cui sembra non esserci più spazio. Nella società dei consumi, del soddisfacimento immediato di qualunque bisogno, non c’è più posto per il desiderio.
Abbiamo perso la capacità di sognare, ma sopratutto quella di lottare per ottenere ciò che desideriamo.

L’attesa, la fatica, quel tempo che ci serapara dal nostro obiettivo è un momento più prezioso di quanto possiamo immaginare, perché ci mette alla prova, ci tempra dandoci la forza poi di… volare.

Ogni volta che ci ritroviamo in un momento di difficoltà pensiamolo come una palestra, come un allenamento cui la vita ci sottopone per preparaci a portare il peso delle nostre conquiste, degli obiettivi raggiunti.

Ciascuno di noi ogni giorno lotta contro se stesso per affrontare le proprie paure e, anche se non ce ne accorgiamo, anche se a volte possiamo pensare che siamo gli unici a soffrire, tutti conducono la propria guerra interiore.

Il percorso per toccare e superare i propri limiti è lento e soprattutto faticoso e nessuno ci arriva senza soffrire: è proprio lo sforzo che abbiamo fatto nel cammino per raggiungere la vetta che renderà il panorama indescrivibile. 

27/05/2015 0 comments
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Romina Rubino Psicoterapeuta Italiana a Londra
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Membro BACP. Riceve a Londra. Email: rominarubino@yahoo.it

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