Romina Rubino
Psicologa, Psicoterapeuta Psicoanalista italiana a Londra
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Ogni volta che non diciamo…

by Romina Rubino 30/04/2015
written by Romina Rubino

Yoko Ono

Quante volte preferiamo stare zitti e covare dentro per non rischiare di ferire l’altro?
Quante volte evitiamo di esprimere le nostre idee perché sentiamo di essere gli unici a pensarla diversamente? Quante volte invece preferiamo ferire noi stessi non dicendo ciò che sentiamo, pur di non intaccare l’immagine che gli altri hanno di noi?

Nella vita di tutti i giorni può capitare ad esempio di essere superati mentre siamo in fila, o di sentirci infastiditi dal comportamento di qualcuno a cui vogliamo bene ma che in quel momento ci ferisce.
Spesso scegliamo di stare zitti, di mettere a tacere le nostre emozioni talvolta nel tentativo ci proteggere l’altro, altre volte per proteggere la nostra immagine.
Ma ogni volta che non diamo voce alle emozioni una piccola parte di noi muore schiacciata dalla rabbia e dalla frustrazione e veniamo poi invasi come da un senso di impotenza, di fallimento.
Si tratta generalmente di piccoli episodi, insignificanti per il resto del mondo; talmente semplici che può capitare di vergognarcene anche solo a raccontarli, ma che invece ci toccano nel profondo, il cui ricordo ci tormenta a volte per giorni.

Esprimere i propri punti di vista, le proprie idee, la propria visione del mondo significa essere a contatto con le proprie emozioni e trovare un modo equilibrato per condividerle anche quando creano dolore.
Il prezzo che paghiamo ogni volta che restiamo in silenzio, mettendo a tacere noi stessi, è altissimo. Forse non ce ne accorgiamo immediatamente, ma nel tempo un simile comportamento creerà dentro di noi un vulcano pronto ad esplodere. È così che può capitare di rispondere davvero male ad un amico che magari ha solo fatto una battuta che è l’ultima di una serie di atteggiamenti che, magari a sua insaputa, ci feriscono.

Quando troviamo un nostro equilibrio interiore viene spontaneo restare in contatto con il flusso emotivo che inevitabilmente ogni giorno ci attraversa. È questo contatto che ci permetterà di esprimerci in modo rispettoso dell’altro e allo stesso tempo assertivo, ovvero rispettoso di chi siamo. L’obiettivo non sarà più avere ragione o aggredire l’altro, ma semplicemente mostrare il proprio punto di vista e implicitamente rispettarsi e ottenere rispetto.

Potremmo iniziare a provare ogni giorno a fare un piccolo sforzo per esprimere le nostre idee, le emozioni anche negative, evitando in tal modo di farle accumulare dentro di noi. Tutto ciò che è inespresso, anche quando pensiamo di averlo chiuso in qualche stanza remota della mente, continua a farsi sentire e ad agire nei modi più sorprendenti.
Se c’è un concetto che è rimasto immodificato in tutta la storia della psicologia è l’idea che tutto ciò che è chiuso, separato, inespresso nella nostra mente è fonte di patologia. Ricordiamocene la prossima volta che dovremo scegliere se esprimerci o scomparire.

30/04/2015 0 comments
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Primi passi di uno psicologo italiano nel Regno Unito

by Romina Rubino 22/03/2015
written by Romina Rubino

ATTENZIONE: Le informazioni presenti in questo articolo non sono aggiornate e sono state raccolte nel 2015.
A tutti i colleghi interessati consiglio di consultare i siti uffciali del Governo in quanto la situazione potrebbe essere cambiata anche molto dopo la Brexit. 

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Quando si decide di intraprendere una nuova avventura come quella di trasferirsi all’estero, per quanto si possa cercare di preparsi prima per affrontare il grande cambiamento e nonostante la ricerca di testimonianze e consigli da parte di altri che avevano già fatto “il grande salto”, non si è mai abbastanza preparati quando si tratta di stravolgere la propria vita.

Al di là delle esperienze individuali, che si colorano inevitabilmente delle sfumature più variegate, ottenute da un mix di caratteristiche personali: minore o maggiore flessibilità, differenti posizioni economiche, background culturali ed età, ci sono dei percorsi che definirei obbligati.

È questo sicuramente il caso dei colleghi che arrivano prima o poi alla ricerca delle modalità per il riconoscimento dei titoli di studio conseguiti in Italia per poter lavorare in ambito psicologico in Inghilterra.
Si tratta di uno degli aspetti vissuti con maggiore frustrazione per la difficoltà di reperire informazioni. Ci si ritrova ad impiegare intere giornate con la sensazione di vagare senza senso nel web alla disperata ricerca di coordinate generali su cui orientarsi.

In un marasma di informazioni frammentarie e sconnesse  sembra a volte impossibile sbrogliare la matassa e ritrovare l’orientamento emotivo, psicologico e pratico.
Cerchiamo allora un po’ di chiarezza.

Prima cosa importante da sapere è che in UK psicologo e psicoterapeuta sono due figure diverse al punto da seguire percorsi di studio completamente differenti.
Al contrario che in Italia, lo psicologo è considerato una figura di maggior prestigio rispetto allo psicoterapeuta!

La formazione dello psicologo prevede una laurea di primo livello in Psicologia e un paio d’anni di esperienza come Assistant Psychologist. (Esistono richieste per questo ruolo la cui retribuzione si aggirava intorno ai 1,000 / 1.200 pounds mensili)
Successivamente si può accedere ad un dottorato di altri 2 anni (per cui pare ci sia una competizione altissima) in cui ci si specializza in un’area di interesse tra: clinical, counselling, educational, forensic health, occupational, o teaching and research in psychology.

Praticamente in Italia è necessario concludere un percorso di 5 anni per otterene la laurea in Psicologia ed accedere ad un dottorato.
In UK (dove la pratica ha l’assoluta priorità) si studia Psicologia per 3 anni, poi si fa esperienza per almeno altri 2 anni e poi si procede con il dottorato.
Per cui, quando uno psicologo con la laurea quinquennale (non importa che sia la 3+2 o il famoso vecchio ordinamento) arriva in UK in realtà è paragonabile a chi qui ha preso la “semplice” laurea in Psicologia, che dura 3 anni.

Potete trovare informazioni più dettagliate nel sito dell’NHS.

La formazione di uno psicoterapeuta prevede invece un corso la cui durata può variare dai 2 ai 4 anni in base all’orientamento scelto, per i quali NON è necessaria una laurea in Psicologia.

Per questo non è raro trovare psicoterapeuti in UK con un background anche molto lontano dall’ambito della salute mentale.
È per lo stesso motivo che se magari vi capita di  chiedere informazioni per l’iscrizione alla The British Psychological Society  (BPS) in qualità di psicoterapeuti li sentirete rispondervi con tono alquanto risentito che loro accettano iscrizioni solo da psicologi!

Nel link qualche ulteriore chiarificazione rispetto alle differenze di ruolo e di formazione tra Psychologist e Psychotherapist/Counsellor.

Per quanto riguarda gli orientamenti più diffusi, pare che in UK sia fortemente privilegiato l’approccio Cognitivo Comportamentale.
A questo ci si riferisce con la sigla CBT – Cognitive Behavioural Therapy. Una tendenza che si riscontra anche in Italia, ma ancor di più in una cultura fortemente fondata sulla praticità come quella inglese.
Probabilmente anche per questo il governo tende a finanziare maggiormente questo tipo di terapie che dovrebbero risolvere i sintomi velocemente.
Ciò non toglie ovviamente che anche i terapeuti di orientamenti dinamici possano trovare lavoro, seppur con qualche difficoltà in più.

Passiamo ora a cercare di fare ordine tra le varie possibilità di lavorare in ambito psicologico nel Regno Unito.
Il riconoscimento ufficiale dei titoli è ad opera della Health and Care Professions Council  (HCPC)  che regola alcune professioni sanitarie tra cui quella di psicologo.
Il riconoscimento del titolo da parte dell’HCPC consente di fare carriera nell’NHS (National Health System), ovvero nel Sistema Sanitario Nazionale inglese, per dirla all’italiana in ambito pubblico.
Ottenere questo riconoscimento significa che il titolo italiano viene equiparato a quello inglese: verificano cioè che il vostro percorso di studi abbia lo stesso “valore” di quello inglese.
Solo dopo aver ottenuto questo riconoscimento (e non prima) sarà possibile definirsi “Clinical psychologist”!

Lavorare in ambito pubblico, ovvero nell’NHS, pare sia abbastanza difficile per l’altissima competizione (si fa difficoltà anche a trovare posto per un volontariato!) e sicuramente perché il processo di riconoscimento del titolo è complesso, lento e costoso (ma non impossibile).
Molti infatti preferiscono iniziare da altre vie e solo successivamente sottoscrivere la richiesta di riconoscimento del titolo all’HCPC.

Se si vuole percorrere questa strada, cioè carriera in ambito pubblico.
Esistono 2 tipi di riconoscimento:

–       Uno temporaneo detto Temporary che è quello più veloce da ottenere e ha valenza di 1 anno alla scadenza del quale è rinnovabile di un altro anno al massimo. In genere si impiega un mese per ottenerlo.
Questo riconoscimento riguarda chi intende fare un’esperienza – temporanea appunto, in UK e ancora non è deciso a rimanervi in modo definitivo.
Questo tipo di riconoscimento temporaneo del titolo però, seppur più semplice da conseguire, NON equipara il titolo italiano a quello inglese, per cui con questo non è possibile concorrere alle offerte di lavoro per “Clinical Psychologist” che è invece un titolo protetto per legge in UK e non può essere utilizzato se non rilasciato dall’HCPC.

–   Esiste poi un riconoscimento permanente detto Permanent o Full-HCPC registration che è quello ufficiale ed è appunto a tempo indeterminato.
Il percorso in questo caso è più complicato non solo perché vengono richiesti numerosi documenti, tutti in originale (niente firme digitali o scansioni o stampe) ma anche perché viene richiesto un periodo di esperienza nell’NHS che si compone generalmente di 3 fasi: shadowing (osservazione), assessment (affiancamento) e treatment (trattamento di pazienti sotto supervisione).

Non ultimo per difficoltà, nella documentazione viene inoltre richiesto  una prova di lingua inglese, nello specifico lo IELTS, di cui se non avete mai sentito parlare, troverete informazioni più dettagliate nel link (in italiano).
Si tratta di un test valido a livello internazionale che certifica il livello di inglese raggiunto sotto vari aspetti (listenining, reading, writing, speaking). Fare l’esame costa circa 200 euro e per quanto riguarda l’iscrizione alla HCPC il livello minimo richiesto è il 7 (il livello massimo è 9). Poichè con lo IELTS si limitano a certificare il livello raggiunto (quindi se non siete livello 7 dovrete ripagare e rifarlo successivamente), molti tendono ad aspettare l’ultimo momento utile per poterlo fare.

Per poter far carriera nel pubblico è quindi prima necessario sottoscrivere la Temporary, con questa fare esperienza (volontariato o retribuita) nell’NHS e solo poi passare alla richiesta della Permanent.

Questo il link dove vengono spiegate le differenze tra temporary e permanent registration.

Per sottoscrivere la Permanent comunque vi sarà richiesto:

–       un pagamento di 420 pounds (circa 500 euro) per lo svolgimento della pratica

–       compilazione di un “application form”

–      compilazione di un “Course information form” che deve essere timbrato sulla prima pagina dalla segreteria della propria università assolutamente in originale. Si tratta di un elenco degli esami sostenuti, con descrizione dei programmi, delle ore di studi necessarie e della modalità d’esame (orale, scritto, pratico)

–       prova del titolo di laurea con esami e relativi programmi di studio dettagliati, un documento che dovrebbe chiamarsi Syllabus (nella richiesta all’università specificate che devono essere validi per l’estero, vi chiederanno una marca da bollo di 16,11 euro per ogni certificato; richiedete in più il Diploma Supplement che è un ulteriore documento rilasciato dall’università per l’estero, anche se è in inglese non sostituisce le traduzioni certificate!)

–       traduzione certificata dei titoli compresi esami (effettuata cioè da un traduttore certificato, reperibile dal sito del Consolato italiano a Londra.)
Senza addentrarci nell’universo delle traduzioni certificate (Semplice, Asseverata, Giurata, Con o senza Apostille??) questo il link per capire cosa intendono per “traduzione certificata” in UK. Andate in fondo alla pagina alla voce “Certifying a translation”.

–       attestazione di iscrizione all’Albo (tradotta)

–       e-mail di conferma da parte dell’Università

–       prova di cittadinanza europea (da richiedere al proprio comune, specificate sempre valida per l’estero e vi verrà richiesta altra marca da bollo)

–       un referee (referente) una persona, non necessariamente un collega, che vi conosce da almeno 3 anni (non un familiare) che garantisca per i dati personali forniti

–       uno sponsor, un collega iscritto all’albo di riferimento (anche qui non deve essere un familiare) e che vi conosce da almeno 3 anni a livello professionale e faccia da garante rispetto alle qualifiche e capacità professionali.
Sia lo sponsor che il referee dovranno fornire dati personali e/o prova delle qualifiche e potranno essere contattati

–       e ovviamente un periodo di esperienza nell’NHS

Il concilio si riunisce 2 volte all’anno, per questo i tempi per ottenere il riconoscimento permanente se non si fanno errori e si spedisce tutto correttamente si aggirano intorno ai 6/9 mesi . Se avete ancora dei dubbi su qualche passaggio della procedura, potete chiamare o scrivere al servizio “registration” della HCPC.
Tutto ciò che viene inviato diventa di proprietà della HCPC e non vi verrà restituito (evitate quindi si spedire la vostra pergamena di laurea originale!), inoltre consiglio comunque di fare una copia di tutti i documenti da conservare per poterli consultare in futuro in caso di problemi.
Questo il link per informazioni più dettagliate per la Permanent
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uesto il link per accedere direttamente al form per sottoscrivere la permanent.

Questo invece il link dell’NHS dove si possono trovare offerte di lavoro o di volontariato

Esiste però anche un percorso che prevede l’iscrizione ad una delle associazioni di categoria alle quali le aziende si rivolgono per assumere psicologi privatamente:

–       BPS (The British Psychological Society) dedicata agli psicologi.

–       UKCP  (UK Council for Psychoherapy) che si occupa di psicoterapeuti.

–       BACP  (British Association for Counselling & Psychotherapy) sempre per psicoterapeuti.

La documentazione richiesta in questo caso è:

–       pagamento di una tassa annuale di 160 pounds più sottoscrizione di una delle categorie di interesse per cui si paga a parte una cifra che può variare dai 20 ai 30 pounds.

–       compilazione di un “application form” (reperibile sul sito)

–       prova dei titoli:
1. Titolo di laurea con esami
2. Attestazione di iscrizione all’Albo
3. Certificato della scuola di specializzazione con durata complessiva del corso, ore di lezione e supervisione effettuate

–       traduzione certificata dei titoli compresi esami

–       prova dell’indirizzo con la quale verificano che vivete effettivamente dove dichiarate di vivere; per questa dovete allegare o un documento che vi è stato spedito ad esempio dalla banca (quindi dove compare il vostro nome e l’indirizzo) o un documento ufficiale ad esempio quello con cui vi è arrivato il NIN (National Insurance Number)

–       un referee (referente) una persona, non necessariamente un collega, che vi conosce da almeno 3 anni (non un familiare) che garantisca per i dati personali forniti

–       uno sponsor, un collega iscritto all’albo di riferimento (anche qui non deve essere un familiare) e che vi conosce da almeno 3 anni a livello professionale, che faccia da garante rispetto alle qualifiche e capacità professionali e che vi sponsorizzi scrivendo perché dovreste essere accettati
Sia lo sponsor che il referee dovranno fornire dati personali e/o prova delle qualifiche e potranno essere contattati.

La documentazione deve essere non precedente agli ultimi 6 mesi e tutti i documenti, firme e compilazione dei dati, devono essere in originale. Il tutto va spedito ovviamente per posta.
In genere la richiesta richiede 28 giorni lavorativi per essere approvata fatto salvo dimenticanze o errori.

Essere iscritti ad una di queste associazioni sembra il modo più semplice per incominciare, magari con posizioni più semplici all’inizio e man mano che l’esperienza aumenta (insieme alla confidenza con la lingua) si potrà poi aspirare a posizioni lavorative più prestigiose e retribuite o magari, se il vostro livello di inglese è molto alto e avete già una maturata esperienza potrete anche incominciare direttamente da un ruolo importante, questo dipende ovviamente dai singoli casi.

Molto importante nella cultura inglese sono le esperienze di volontariato; l’ideale sarebbe partire da un’esperienza di supporto psicologico o di ambito affine, magari unendo contemporaneamente un lavoro altro part-time per mantenervi.

Le informazioni che qui ho condiviso sono frutto di mie ricerche personali e sono state reperite sul web o da esperienze di altri colleghi. Sebbene io abbia cercato di verificarne l’esattezza, consiglio sempre prima di intraprendere un qualunque movimento, di cercare comunque conferma da fonti ufficiali.

Spero che questo articolo possa servire ai colleghi che affrontano o affronteranno una simile avventura per sentirsi  un po’ meno disorientati nel muovere i primi passi in ambito psicologico in un contesto tutto da scoprire.
Cambiare nazione è un passo complesso che scatena emozioni spesso contrastanti, sollevando una sorta di moto ondoso emotivo per cui si alternano spesso momenti di grande motivazione a periodi di profondo sconforto.
Per cui, se vi sentite o vi siete sentiti così sappiate che si tratta solo di “storie di ordinaria follia” e che le difficoltà sono sempre parte delle scelte coraggiose!

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Esprimersi o avere ragione

by Romina Rubino 16/02/2015
written by Romina Rubino

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Ultimamente mi è capitato più spesso di leggere su internet articoli e post sugli argomenti più svariati.
Di qualunque tema si parli, di questioni di giustizia, di avvenimenti personali, notizie dell’ultima ora o lo show televisivo del momento ciò che davvero non manca mai sono i numerosi commenti di chi visualizza l’informazione.

Si tratta di una tendenza che riscontro sempre più di frequente e che mi colpisce molto. Nella vita come nel lavoro infatti, mi è capitato frequentemente di incontrare persone timide, che faticano a socializzare e spesso lamentano una difficoltà nell’esprimere la propria opinione. Possono essere numerose le situazioni in cui ci sentiamo “senza argomenti”, come se fossimo scoperti e che ci fanno sentire in una sorta di senso di inferiorità che nel confronto (reale) con l’altro sembra prendere il sopravvento.

Eppure dietro allo schermo diventiamo tutti cuor di leone, pronti a batterci a suon di commenti per esprimere con forza le nostre idee, spesso pronti anche ad insultare chi ci contraddice con il suo pensiero diverso. Mi chiedo se questo sia uno dei tanti effetti collaterali che internet e la (non) vita virtuale ha su di noi.

Forse è bene sempre tenere a mente che dietro lo schermo, dietro ogni tastiera c’è un essere umano, un’altra persona come noi, che soffre, lotta con la propria storia a cui non abbiamo accesso.  Prima di scrivere l’ennesimo commento feroce scagliandoci contro il malcapitato di turno, forse potremmo cogliere l’occasione di interrogarci sul perché diventa così importante per noi affermare con tale forza il nostro pensiero.

Ritengo che esprimere le proprie idee sia ben diverso da voler convincere l’altro a tutti i costi di avere ragione. Spesso, almeno per la mia esperienza, esprimere se stessi ed avere ragione hanno poco a che fare tra loro.

Credo inoltre che esprimersi e farsi un’opinione su un argomento sia un lavoro che richiede un tempo ed uno sforzo che vanno molto oltre il leggere qualche notizia in ordine sparso.
Internet è uno strumento che ha sicuramente rivoluzionato l’informazione, rendendo accessibili una marea di strumenti che prima erano ad esclusiva disposizione degli specialisti del settore. Di certo, però, non ci rende tutti specialisti in tutto!

Abituarci ad utilizzare espressioni come “penso che”, “questa è la mia opinione”, “secondo il mio punto di vista” forse può aiutarci a ricordare che la nostra voce ha diritto ad esprimersi come quella di tutti gli altri e che la maggior parte delle volte abbiamo accesso solo ad una visione parziale delle notizie che leggiamo.

Mi viene in mente un simpatico aneddoto che riguarda la vita di Einstein e che mi torna spesso utile nella quotidianità per mantenere la mia mente “sveglia” e che credo possa essere utile a tutti.
Einstein ha lavorato per molti anni in un ufficio brevetti; il suo compito consisteva nel valutare se concedere un brevetto a tutti coloro che ne facevano richiesta, convinti di avere avuto un’idea geniale, quantomeno originale.
Fu proprio in questo contesto che il grande scienziato ebbe modo di sviluppare il suo pensiero critico.

Adottò un sistema molto semplice che mi sento di suggerire a chiunque voglia esercitare il proprio pensiero critico e che fu suggerito ad Einstein dal suo capo: ogni volta che valuti una domanda di brevetto”parti dal presupposto che tutto ciò che dice l’inventore sia sbagliato… altrimenti ti adeguerai al suo modo di pensare, e ciò ti provocherà dei pregiudizi.
Il tuo spirito critico deve rimanere sempre vigile.”

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Matrimonio tra una persona sorda ed una udente

by Romina Rubino 02/02/2015
written by Romina Rubino

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(Questo articolo è disponibile nella sua versione in lingua originale al link: http://deafness.about.com/cs/friendshiparticles/a/mixedmarriage.htm )

Com’è essere sposati con una persona udente (e per una persona udente aver sposato una persona sorda)? Abbiamo chiesto ad una coppia sordo-udente.

Coniuge sordo:

• Quando andiamo a trovare i parenti è il coniuge udente che comunica facilmente con loro, mentre io mi limito ad utilizzare la mia capacità di leggere le labbra al meglio di quello che posso e scrivere e riscrivere.

• Quando facciamo feste di compleanno per i bambini, se qualcuno degli altri genitori non segna bene, io ho difficoltà a comunicare con loro e spesso devo contare o su qualche altro genitore che segna meglio, che interpreti, o sul mio coniuge udente.

• Quando siamo fuori in un luogo pubblico, per esempio un ristorante o un parrucchiere, qualche volta il mio coniuge udente deve spiegare se loro non capiscono la mia pronuncia (la mia pronuncia è facile da capire per le persone udenti che non mi conoscono). Quando è possibile, io cerco di comunicare da solo, parlando, scrivendo o puntando così a non diventare dipendente dal mio coniuge udente.

• Nei primi giorni della nostra relazione sordo-udente, il coniuge udente non era molto accettato dalla comunità sorda. C’è voluto tempo, ma adesso il coniuge udente è completamente accettato. La disponibilità del coniuge udente ad usare la lingua dei segni e a partecipare alla comunità sorda è stata molto importante nel nostro matrimonio.

• La prima lingua dei nostri bambini sordi è ASL (American Sign Language – Lingua dei Segni Americana) e lui non sempre li comprende. Spesso sono nel ruolo di interprete al contrario, dando voce a quello che loro segnano se non usano la voce.

• Il mio coniuge udente si esprime bene con la lingua dei segni, ma non riesce altrettanto bene a recepire, il che significa che deve fare molto affidamento sulla mia voce per comunicare. Se non avessi parlato non so se saremmo ancora sposati. Sto provando a non usare più la mia voce per migliorare le capacità recettive del mio coniuge udente. (La comunicazione è uno dei problemi più grandi nei matrimoni tra sordi e udenti).

Coniuge udente:

• Faccio ancora difficoltà quando devo capire i segni . Non avevo mai segnato nella mia vita, o per gran parte di essa, e non lavoro con persone che segnano. Come parte di un matrimonio sordo-udente continuo a lavorare sulla mia capacità di comprensione dei segni.

• Se il coniuge sordo mi urla qualcosa in casa, io non posso rispondere gridando. Devo andare dove si trova e capire cosa vuole. Anche i nostri bambini adesso lo fanno. In qualche modo loro sfruttano il fatto che io sono udente e loro sono sordi!! (Coniuge sordo: Io sono consapevole che lo faccio e che non dovrei farlo. Sto lavorando per imparare ad andare dal coniuge udente, piuttosto che gridare. Questa è una delle cose che devi fare in un matrimonio sordo-udente.)

• Il coniuge sordo usa l’espressività delle persone sorde, e nota poca espressività in me o nelle altre persone udenti considerandoci apatici e privi di entusiasmo. Io gli rispondo che questo non è necessariamente vero, visto che le persone udenti spesso esprimono le emozioni con la voce più che con il viso.

• Il coniuge sordo non è ancora molto a suo agio nelle situazioni sociali con molte persone udenti, e io non sono ancora molto a mio agio nelle situazioni con molte persone sorde. Comunque, è più facile per me in un raduno di sordi che per il coniuge sordo in un raduno di udenti, perché è più probabile che ci sia una persona udente o che si esprime a voce ad un evento di sordi, che una persona sorda o una persona che segna ad un evento di udenti.

• Veramente, la maggior parte della nostra vita sociale tende a ruotare attorno ai genitori dei compagni di classe dei nostri figli. Questo ci aiuta molto perché la maggior parte dei genitori sono sia persone udenti che possono segnare che persone sorde che usano la voce.

Coniuge udente: Nonostante i problemi di un matrimonio sordo-udente e di crescere bambini sordi se tu sei udente, non mi sono mai pentito di aver sposato una persona sorda o di aver avuto figli sordi, e rifarei la stessa cosa, un milione di volte.

Coniuge sordo: E se sei sordo come me e in una relazione sordo-udente, ti potresti trovare qualche volta a desiderare che il tuo partner fosse sordo o anche che avesse difficoltà di udito. Comunque, quello che è importante è il carattere della persona che hai scelto di sposare, non quanto lui/lei possa sentire bene.

(Traduzione a cura della Dott.ssa Romina Rubino)

Segui su Facebook la pagina dei CODA Italia (Children of Deaf Adults), un’Associazione di Promozione sociale nata in Italia che si occupa di figli udenti di genitori sordi.

https://www.facebook.com/codaitalia

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Diversi… come il giorno e la notte

by Romina Rubino 27/01/2015
written by Romina Rubino

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Un breve commento su un interessante cortometraggio che affronta simbolicamente il tema di come possiamo reagire di fronte al “diverso”. Un argomento che trovo particolarmente attuale soprattutto se pensiamo a quanto spesso venga subdolamente utilizzato per tentare di manipolare le nostre opinioni.

Tutto ciò che è diverso da noi, immediatamente categorizzato come estraneo, inizialmente ci spaventa e ci conduce ad una chiusura in cui sentiamo come il bisogno di sottolineare i nostri contorni, di rimarcare chi siamo. Ma se ci facciamo guidare solo dalla paura di perdere noi stessi, la nostra cultura, i nostri tratti caratteristici ci ritroveremo a vivere in un ambiente arido, stagnante.

Aprirsi al nuovo (simpaticamente rappresentato nella seconda parte del video) significa andare oltre quella diffidenza iniziale, che può spaventare.
Incontrare profondamente l’altro non penso significhi dover rinunciare a quelle caratteristiche che fanno di noi ciò che siamo; penso invece che possa essere un modo per arricchire se stessi, per conoscere nuove abitudini e modi di vivere anche molto diversi dai nostri, che non sottraggono nulla a ciò che già siamo, anzi aggiungono.

Guardarsi attraverso gli occhi di chi è diverso da noi è uno sofrzo che ci restituisce un’immagine molto più chiara di chi siamo, utile anche per ridare senso a ciò che facciamo.

Guarda il cortometraggio di cui parlo nell’articolo: Quando il giorno incontra la notte

 

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Crescere come figlio di genitori sordi

by Romina Rubino 26/01/2015
written by Romina Rubino

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(Questo articolo è disponibile nella sua versione in lingua originale al link: http://deafness.about.com/od/families/a/growupcoda.htm )

Com’è crescere da bambino udente, figlio di genitori sordi, un CODA? Jake, un adulto udente che è cresciuto con genitori sordi, adesso morti, ha condiviso la sua esperienza con About.com. Leggi la storia di Jake, che ha avuto luogo decenni fa. Cosa è cambiato e cosa è rimasto uguale per i bambini che crescono CODA oggi?

D: In che periodo sei cresciuto?

R: Sono nato nel 1956, quindi la mia infanzia si è svolta principalmente negli anni ’60.

D: Come hai imparato a parlare? (Come fa un bambino udente con genitori che non parlano, ad imparare a parlare?)

R: io ero il primogenito, e non c’erano altre persone udenti che si fermassero regolarmente, così ho imparato a parlare quando ero già abbastanza grande da andare fuori a giocare con gli altri bambini udenti, all’età di circa 4 o 5 anni.

D: Eri mai imbarazzato dal fatto che i tuoi genitori fossero sordi?

R: Ricordo quando volevo segnare ai miei genitori in macchina e loro mi dicevano di tenere le mani un po’ più giù. Io penso che questo abbia contribuito a rendermi piuttosto imbarazzato nell’attirare un qualche tipo di attenzione segnando in pubblico. Comunque, non avrei mai parlato liberamente e avrei aspettato di dire o chiedere qualcosa ai miei genitori finché non ci fossimo trovati in una zona privata, specialmente quando dovevo fare da interprete per loro con i commercianti o altre persone d’affari.

D: Come gestivano i tuoi genitori gli incontri genitori-insegnanti a scuola?

R: Non sono mai andati. Potrebbe essere perché gli anni ’60 non erano l’epoca degli interpreti. Non furono mai nemmeno convocati a scuola per qualche problema di comportamento. Lo stesso valeva anche per andare in chiesa. Comunque, ricordo di una volta in cui mia madre venne a scuola, durante la mia prima elementare, e successivamente scoprii che le era stato detto che avevo bisogno di ripetere la prima classe.

D: Come socializzava la tua famiglia?

R: Crescendo, i miei genitori portavano noi bambini ai parchi divertimento, in estate una settimana di vacanze in spiaggia in New Jersey e a visitare i loro amici sordi il sabato sera o la domenica, e molti di loro avevano bambini vicini alla mia età. Invitavano anche i loro amici sordi a venirci a trovare nella nostra casa il fine settimana.

D: Hai avuto qualche fratello udente o sordo?

R: C’erano solo due bambini nella nostra famiglia, ed entrambi erano udenti. Sembra che mio padre fosse diventato sordo accidentalmente mentre era ancora nell’utero o subito dopo la nascita, mentre per mia madre è accaduto quando era bambina. Inoltre, nessun familiare da entrambi i lati dei miei genitori era sordo o con problemi di udito.

D: Come interagivano i tuoi genitori con i genitori udenti dei tuoi amici?

R: I miei genitori socializzavano principalmente con i loro amici sordi. Comunque, nel nostro quartiere di 20 file di case (Philadelphia, Pa.) c’erano, inclusi i miei genitori, quattro persone sorde! I miei genitori avrebbero voluto socializzare anche con questi altri due. Così come gli adulti del vicinato, i miei genitori, specialmente mia madre, avrebbero parlato, ma non è mai stato per visite prolungate tranne che per poche eccezioni.

D: I tuoi genitori erano attivamente coinvolti nella comunità sorda? Se si, ti portavano agli eventi per sordi e alle assemblee?

R: Sì, mia madre ci portava a varie attività per sordi nell’area di Philadelphia (dove è cresciuta), come alle attività nelle chiese, al bingo, serate film, picnic alla PA School for the Deaf e alla prima casa per Sordi e Ciechi, ecc. Mio padre era del New Jersey, così tutti e quattro andavamo ai club per sordi e partecipavamo alle attività del New Jersey.

D: C’è altro che vuoi aggiungere sulla tua esperienza di crescita come CODA?

R: Sì,le domande sopra hanno toccato della aree che vorrei sviluppare:

• Non ho frequentato l’asilo, la scuola materna o la primina, cosa che sono sicuro ha ritardato la mia acquisizione del linguaggio come bambino udente e ha probabilmente causato, sia per me che per mia sorella, il dover ripetere gli anni a scuola.

• Negli anni ’50 non c’erano test che potessero diagnosticare se un bambino fosse udente o sordo al momento della nascita, quindi i miei genitori erano molto ansiosi di scoprire se io fossi udente o no. Sono sicuro che loro avrebbero amato un bambino sordo, se ne avessero avuto uno, ma hanno preferito avere un bambino udente.

• Anche se i miei genitori hanno provveduto ai bisogni di base, a nutrirci, a proteggerci e a vestirci bene, per noi due bambini, non sono stati in grado di renderci sicuri di noi stessi. Io penso che fosse perché sentivano che se una persona era udente era adeguatamente preparata ad affrontare la vita. Come risultato, io ancora combatto con problemi di autostima. Adesso all’età di 51 anni, faccio ancora lavori sotto-pagati, non ho mai avuto una relazione a lungo termine, ecc.

• Penso che i bambini udenti nati da genitori sordi crescano sentendosi parte di entrambi i mondi, quello dei sordi e quello degli udenti, ma molti sordi, specialmente quelli che ho incontrato per la prima volta da adulto, sembrano metterci interamente in una categoria, quella degli udenti e in qualche modo mi ignorano. (Posso capire che loro possano essersi sentiti nello stesso modo andando nelle scuole per sordi con praticamente tutto il personale udente ecc . e con la famiglia che non si preoccupava di imparare la Lingua dei Segni o che li escludeva dai discorsi di famiglia.)

(Traduzione a cura della Dott.ssa Romina Rubino)

Segui su Facebook la pagina dei CODA Italia (Children of Deaf Adults), un’Associazione di Promozione sociale nata in Italia che si occupa di figli udenti di genitori sordi.

https://www.facebook.com/codaitalia

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Riflessi nel suicidio: nero cristallo

by Romina Rubino 23/08/2014
written by Romina Rubino

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La morte incrocia spesso le nostre vite da vicino in modi che ci toccano nel profondo e sconvolge le nostre esistenze, spesso trasformandole radicalmente.
Ma quando la morte diventa una scelta, quando qualcuno, un essere umano come noi, decide di rinunciare alla vita, a quello per cui tutti quotidianamente lottiamo con forza, allora ci sentiamo smarriti, persi, confusi.

Il senso di shock che ci blocca alla notizia di un suicidio ci pervade, conficcandoci nel cuore un perché.
È davvero difficile comprendere le ragioni profonde di un gesto così disperato; difficile e pericoloso, perché ci mette in contatto con le nostre ombre dietro cui si nascondono quei fantasmi che non abbiamo il coraggio di guardare.

Nonostante i numerosi studi sul tema, nonostante alcune brillanti spiegazioni psicologiche circa le fasi che conducono al gesto estremo, resta sempre un cruccio, un enigma dietro al quale si celano i percorsi tortuosi ed insoliti che la mente deve compiere per approdare alle porte della morte.
Sono eventi che ci mettono di fronte alla fragilità della mente umana, che ci spingono a riflettere su quelle debolezze, che tutti abbiamo e che cerchiamo troppo spesso di nascondere.

I miti della forza, della felicità a tutti i costi, hanno invaso ormai la società e ci sentiamo tutti in obbligo di dimostrare di stare bene, di divertirci, di non aver bisogno di niente e soprattutto di nessuno.
La verità però è che siamo fatti di emozioni e la tavolozza dei colori a cui attingiamo è molto variegata, tanto da comprendere non solo colori vivaci ed allegri, ma anche note tristi e toni scuri.

Spinti a sorridere sempre, siamo portati a negare quei momenti di tristezza  e sconsolazione che pure fanno naturalmente parte dell’esistenza. Ci costringiamo, a denti stretti, a mostrarci sempre forti e dentro implodiamo soli nel nostro dolore, stagnando in un senso di solitudine e nella sensazione che nessuno possa comprenderci.

Scrivere, parlare, confrontarsi; ciò che conta è esprimere se stessi, anche attraverso forme creative. Ciascuno deve trovare il suo modo di ascoltare il proprio dolore ed esprimerlo, perché non cresca nelle oscurità di quelle stanze che abbiamo, per paura, chiuso a chiave.

Aprirsi all’altro, anche solo per condividere le nostre piccole preoccupazioni, le paure, i momenti di sofferenza piccoli e grandi che normalmente viviamo, può aprire a nuove visioni del mondo; possiamo scoprire che non siamo soli, che spesso siamo circondati da persone che ci sostengono anche semplicemente con la loro presenza se solo osiamo aprirci a loro.

Per chi volesse approfondire il tema del suicidio segnalo un mio articolo:

http://www.giornalearmonia.it/se-la-notizia-di-un-suicidio-diventa-un-omicidio-linfluenza-dei-mezzi-di-comunicazione/

23/08/2014 0 comments
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Il delicato compito di educare

by Romina Rubino 09/07/2014
written by Romina Rubino

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Il compito dei genitori è gravoso: si tratta di un sottile equilibrio tra il proteggere e l’esporre il proprio figlio agli stimoli del mondo, per permettergli di realizzarsi per quello che è, rispettando le sue naturali propensioni.
Sempre più spesso mi capita però di incontrare bambini iper-stimolati, a cui viene chiesto di eccellere in ogni cosa ed implicitamente di portare il gravoso fardello di riscattare la propria famiglia dall’anonimato, dalla normalità.
Programmi televisivi che spettacolarizzano le capacità di bambini molto piccoli si sono infatti diffusi molto velocemente, lanciando la moda del “bambino di successo”.
I ritmi stressanti di lunghe ore d’attesa e prove estenuanti sembrano però, molto distanti dalla leggerezza del gioco finalizzato al puro divertimento. Un privilegio di cui nessun bambino dovrebbe essere privato!

Stimolare l’interesse dei bambini è fondamentale perché possano crescere sani e successivamente avere gli strumenti per raggiungere le loro aspirazioni, realizzare i propri sogni (e non quelli dei genitori).
Per questo si rivela particolarmente importante dedicare loro un tempo che vada nella linea della condivisione di esperienze nuove; momenti in cui il bambino possa sperimentare, sentendo di avere accanto un adulto di cui si può fidare e che si costituisce come base sicura da cui partire e a cui tornare per esplorare il mondo. Allo stesso tempo però, riempire i bambini delle attività più disparate, non solo appesantisce la loro età che dovrebbe essere per definizione leggera e spensierata, ma spesso li sottopone a livelli molto alti di stress.

Quando riempiamo i nostri bambini di attività, che si tratti di sport, musica, teatro, oltre che di studio ovviamente, o anche quando li iscriviamo a competizioni di bellezza o di tipo sportivo, cosa stiamo veramente chiedendo a quei bambini? È davvero un loro bisogno, un loro desiderio quello che vogliamo soddisfare? O piuttosto li stiamo involontariamente rendendo oggetto di nostri desideri?
L’accanimento e la competitività con cui molti genitori si approcciano alle attività didattiche e non, diventano un peso vero e proprio che quei genitori letteralmente mettono sulle spalle dei propri figli, costringendoli a soddisfare una sorta di voglia di riscatto che sicuramente non può appartenere ad un bambino.
È questo il caso ad esempio dei genitori che pubblicano le pagelle dei propri figli su Facebook facendo sfoggio e vanto dei loro voti (ovviamente alti), ma anche di quelli che semplicemente si limitano a comunicare a voce ad amici e conoscenti di quanto i propri figli siano appunto “di successo”. C’è una grande differenza tra supportare un bambino facendolo sentire gratificato per un risultato raggiunto ed usare i suoi risultati mettendoli in vetrina per riscattare la propria immagine agli occhi del mondo.

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Cosa accadrà nella mente di quel bambino quando magari per un piccolo momento di difficoltà personale non riuscirà a mantenere gli stessi standard? Si sentirà amato lo stesso? O sarà tentato di pensare che per essere amato deve produrre, deve primeggiare, deve avere successo?
I figli non sono trofei da sfoggiare ed è giusto che abbiano la reale possibilità di seguire le proprie propensioni e che non si sentano invece costretti a sacrificare i propri desideri, la propria spensieratezza sull’altare della realizzazione dei sogni falliti dei propri genitori.
Si tratta di un compito complesso e sicuramente delicato per i genitori, perchè richiede un contatto profondo con parti di noi con cui non è facile fare i conti.
Sopratutto quando abbiamo un cruccio, un sogno che per le vicissitudini della vita non ha trovato realizzazione, dobbiamo entrare in contatto con la frustrazione che quell’evento ha provocato dentro di noi. Solo dando voce alla nostra sofferenza potremo scongiurare il rischio che quel dolore, quel nodo, si riversi sulla vita dei nostri figli.

Ogni volta che sentiamo che il successo o la vittoria di un figlio in una competizione assume una rilevanza quasi vitale è bene che raccogliamo quella sensazione come segnale d’allarme che ci spinga ad interrogarci sul perchè un risultato è così importante.
Nella nostra società purtroppo la competizione è una grande protagonista e il rischio è che si perda di vista l’obiettivo principale: divertirsi!
Le ripercussioni che questo tipo di educazione comporta sono visibili anche negli adulti e non sorprende se sempre più spesso siamo vittime di crisi di panico ed ansia da prestazione.

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Il ritorno al mito di Narciso: diffusione del narcisismo nella cultura moderna

by Romina Rubino 17/03/2014
written by Romina Rubino

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“Che cosa sono adesso?”
pensava, contemplandosi allo specchio.
E lo specchio replicava con la brutale sincerità degli specchi:
«Non sei nulla».”

Virginia Woolf, Flush

Narciso, termine di derivazione greca, affonda le sue radici etimologiche in “narkè”, torpore.

Come spesso accade, l’etimo ci viene in soccorso per rivelare i significati profondi delle parole, gettando una luce, in tal caso, sul senso appunto di torpore e –potremmo dire- di stordimento di chi dedica la propria esistenza all’inseguimento di un ideale di sé e si smarrisce tra i vapori delle proprie fantasie di grandiosità.

Sono trascorsi davvero molti anni dalle prime teorizzazioni freudiane che vedevano Narciso protagonista; ciononostante per descrivere la società moderna possiamo parlare di un ritorno al mito del narcisismo, i cui tratti hanno soppiantato l’egemonia del disturbo isterico, in auge in epoca freudiana.

Studi recenti di psicologia sociale rivelano infatti l’allarmante incidenza del disturbo narcisistico di personalità nelle nuove generazioni; un dato che assume particolare rilievo soprattutto se confrontato con le generazioni passate.
Pertanto lo psicoanalista junghiano R. Johnson ha chiamato me-generation la moderna generazione che, come attraverso una rivoluzione copernicana, sembra aver scompaginato i valori normativi tradizionali, anteponendovi i bisogni narcisistici e le gratificazioni personali.

I principali criteri diagnostici distintivi del disturbo narcisistico spesso incrociano irrimediabilmente i “valori” moderni trasmessi dai mezzi di comunicazione di massa, propulsori di messaggi che incoraggiano l’apparenza, l’immagine, la superficialità, che spesso riscuotono maggior consenso della profondità e della sostanza.
È questa crescente tendenza che ha spinto molti autori (Cooper, 1998; Lasch, 1979; Rinsley, 1986; Stone, 1998) a parlare di “cultura narcisistica”, per sottolineare come nella società dei consumi, attenta alla produzione più che alla lealtà, alla forma più che alla sostanza, la differenza tra una sana autostima e le forme patologiche sfumi dietro il crescente bisogno di apparire.

Un processo di spersonalizzazione che sembra non tenere conto degli umani limiti, alimentando un mondo illusorio e pericolosamente irreale, caratterizzato da un’eccessiva preoccupazione per l’immagine e l’utilizzo del corpo come feticcio.
Come nota Gabbard (2002), lo sfruttamento dell’altro, indicante uno dei criteri diagnostici del disturbo di personalità narcisistica, è fortemente adattivo nella nostra società: riscuotere successo è diventato sicuramente più importante rispetto a valori come l’impegno, l’integrità, la sincerità ed il calore interpersonale.

Nella situazione culturale attuale ciascuno vive solo e per sé e gli scambi relazionali sempre più virtuali sono strumentali all’autocelebrazione. Per Recalcati (2012) “la nevrosi tende a schiacciare la dimensione singolare del desiderio nella necessità del riconoscimento. Preferisce il riconoscimento dell’Altro alla differenziazione”.

Ma è nell’impossibilità dell’incontro con il limite che i giovani moderni, come il povero Narciso, restano intrappolati nella propria immagine, ipnotizzati da se stessi, persi nelle increspature del lago in cui si vedono riflessi senza riconoscersi profondamente.
Poco avvezzi a tollerare la frustrazione, a sostenere la ferita di un divieto, di un rifiuto, vivono sull’onda di sentimenti mutevoli e transitori, preda di tempeste emozionali, immersi nel mito dell’onnipotenza e del godimento sfrenato. Recalcati (2012) avverte però, che ogniqualvolta “il godimento prende la via della compulsione sregolata e del rigetto della castrazione, non è mai pulsione di vita ma solo pulsione di morte, corsa rovinosa verso la propria distruzione”.

In questo contesto la relazione in senso esteso ne esce trasformata, danneggiata, svilita.

Galimberti (2004) considera l’incontro con l’altro e l’amore “il luogo della radicalizzazione dell’individualismo, dove uomini e donne cercano nel tu il proprio io […], amore indispensabile per la propria realizzazione come mai lo era stato prima, e al tempo stesso impossibile perché, nella relazione d’amore, ciò che si cerca non è l’altro, ma, attraverso l’altro, la realizzazione di sé”.

E se è vero che è sul contatto con l’altro che costruiamo la nostra identità, intrattenendo rapporti virtuali e strumentali possiamo solo alimentare la costruzione di identità fondate sull’illusione; identità fragili, forse bellissime, ma vuote.

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Sulle orme di Narciso.

by Romina Rubino 09/03/2014
written by Romina Rubino

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“Mi ammiri molto, veramente?” domandò al piccolo principe.
“Che cosa vuol dire ammirare?”
“Ammirare vuol dire riconoscere che io sono l’uomo più bello,
più elegante, più ricco e più intelligente di tutto il pianeta.”
“Ma tu sei solo sul tuo pianeta”

Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe.

Risulta particolarmente complicato, oggi più che in passato, parlare di narcisismo distinguendo un chiaro confine tra il normale senso di amor proprio, che pur è necessario per un’esistenza sana, e le forme patologiche. È difficile segnare cioè, uno spartiacque che separi il perdersi nel mondo meraviglioso delle illusioni, delle immagini, dei riflessi, dal mondo reale seppur meno idilliaco.

Nancy McWilliams, in “La diagnosi psicoanalitica” ha delineato con pennellate delicate ma precise il mondo interno di questo tipo di personalità, offrendoci un ritratto interessante e più autentico di Narciso.
L’autrice, attraverso un approccio originale che ci restituisce la misura della sofferenza con cui questi soggetti si confrontano quotidianamente, sottolinea “i costi interiori della fame narcisistica”, evidenziando “il terrore di inadeguatezza, vergogna, debolezza ed inferiorità” che attanaglia i narcisisti.
Aggiunge inoltre che “in ogni narcisista fatuo e grandioso si nasconde un bambino impacciato e vergognoso, e in ogni narcisista depresso e autocritico è latente un’immagine grandiosa di ciò che la persona dovrebbe o potrebbe essere.” (pag. 193)

Argomento ricorrente nella letteratura sul tema è proprio l’ipotesi che il narcisista sia stato un bambino particolarmente sensibile ai messaggi non verbali dei genitori, caratterizzato cioè da una capacità quasi soprannaturale di scrutare gli atteggiamenti degli altri e di carpirne le più recondite aspettative.
I genitori, incapaci di cogliere bisogni e desideri del bambino, lo tratteranno non tanto per ciò che egli è, quanto per ciò che dovrebbe essere, fornendogli in tal modo un’immagine interna distorta ed illusoria.

Per comprendere il vissuto della persona che sarà centrata sulla propria immagine, bisogna pertanto considerare il paradosso insito nella genesi di questo stile relazionale, che si connota per una scelta precoce di sacrificio di parti di sé sull’altare delle attese materne. Un sacrificio che, in una paradossale ritualità, verrà ripetuto nell’ossessiva ricerca di quello sguardo di amore autentico e disinteressato primariamente negato.

L’esperienza soggettiva del narcisista è, quindi, un profondo senso di vuoto interiore ed una mancanza di significato che questi individui cercano di affrontare rincorrendo continuamente conferme esterne circa il proprio valore, che dunque è perennemente in discussione.
La continua ricerca del proprio riflesso negli occhi dell’Altro è uno dei tratti comuni dei soggetti narcisisticamente strutturati, che sono spesso incalzati da sentimenti di vergogna ed invidia quando i riconoscimenti esterni scarseggiano. Come sottolinea McWilliams infatti, “Se sono interiormente convinto di avere qualche mancanza e di essere continuamente a rischio di venire scoperto delle mie debolezze, sarò invidioso di coloro che appaiono soddisfatti o che hanno quelle risorse che secondo me potrebbero compensare le mie mancanze.” (pag. 195)

Il narcisista dunque, come un Dorian Grey a cui risulta così penoso confrontarsi con i propri umani limiti, sembra preferire una sorta di patto col diavolo, che diviene il male minore di fronte all’alternativa insopportabile di guardare se stesso per ciò che realmente è.

Il mondo relazionale del narcisista appare difatti superficiale e frastagliato;  i rapporti sia amicali che amorosi sembrano bruciare ardentemente al fuoco dell’idealizzazione iniziale, per poi spegnersi altrettanto velocemente nell’implacabile incedere delle richieste di attenzioni altrui. Accade frequentemente che l’altro, dapprima idealizzato, una volta mostrato il suo vero volto, perda la sua attrattiva agli occhi del narcisista, che deluso, volge il proprio interesse verso nuove conquiste, dando vita ad un moto perpetuo che culminerà sempre nello stesso esito: un “modo di spremere gli altri per lasciarseli poi alle spalle svuotati” (Gabbard, 2002).

I ripetuti cambi di partner testimoniamo la vacuità della ricerca del narcisista, che per la profonda incapacità di riconoscere i sentimenti propri e di chi lo circonda, può trasformarsi in uno spietato sfruttatore. È in questo oscillare continuo tra sé e l’altro che Narciso drammatizza il proprio paradosso: “la sua disperata dipendenza dall’ammirazione altrui si accompagna a un estremo isolamento e all’incapacità di formare legami reali con le altre persone.” (Cohen et al., 2006)

Potremmo definire il narcisista come un bambino denutrito del cibo essenziale ai fini della crescita e dello sviluppo di sé: la relazione.

Se per conoscere se stessi è infatti necessario conoscere e ri-conoscersi nell’altro, di fatto colui al quale sarà stato negato un amore primario profondo, non sarà capace di riconoscersi e resterà incastrato, come Narciso, nella contemplazione di un riflesso che resta estraneo.
In accordo con McWilliams quindi “il costo più pesante di un orientamento narcisistico è l’arresto della capacità di amare”, drammatico risultato del “…messaggio [genitoriale] ambiguo di essere molto apprezzato, ma solo per il ruolo particolare che svolge” e che pone il bambino in una posizione di scacco da cui origina il timore di un rifiuto dovuto alla scoperta dei propri sentimenti ostili o egoistici.

Questi bambini vivono come sotto assedio, in uno stato di incessante valutazione, che anche quando si trasforma in ammirazione genitoriale, induce nel bambino il sospetto preoccupante di non meritare un tale apprezzamento e lo costringe a vivere ogni esperienza come performance in cui mostrare nuovamente il proprio valore.

I bisogni narcisistici dei genitori, creano nel figlio quella confusione emotiva che lo conduce in età adulta all’incapacità di discernere tra le proprie emozioni e gli sforzi per compiacere gli altri, una patina che impedisce a Narciso di ri-vedersi nel suo stesso riflesso.

Anche Mitchell (1993) ha offerto interessanti spunti di riflessione sull’argomento del narcisismo: “l’elemento cruciale –per questo autore-  è la funzione interattiva delle illusioni nella matrice relazionale del soggetto”, ovvero, le illusioni costituiscono l’unica forma relazionale in cui il soggetto riconosce se stesso.
Quanto più il genitore dipende dalle illusioni, tanto più esse assumono connotati di indispensabilità per il bambino, che avverte che l’unico modo per “essere visto” dal genitore è aderire alle sue illusioni (ad es. essere perfetto). In tal modo sostenere le illusioni genitoriali appare come l’unica via battuta che conduce al tanto agognato legame con le proprie figure genitoriali, così come con l’Altro; un percorso unico e senza alternative in cui le illusioni restano il doloroso prezzo da pagare per il contatto e la relazione (Mitchell, 1986).

La patologia assume pertanto valore e significato completamente diversi rispetto al passato. Questo modello spinge, infatti, ad una riflessione sulla funzione adattiva delle psicopatologie, riconoscendone nelle diverse rappresentazioni, la natura ripetitiva di pattern patologici ma funzionali al bisogno primario: quello relazionale. “Il desiderio come desiderio dell’Altro mostra che il desiderio umano ha una struttura relazionale. Esso proviene dall’Altro e si dirige verso l’Altro”. (Recalcati, 2012)

I modelli già sperimentati assumono quindi i connotati di un canovaccio a cui ciascuno resta fedele, in quanto considerato sicuro e conosciuto; la propria trama relazionale verrà messa in scena in ogni relazione, compresa, ovviamente, quella con il terapeuta.

Bibliografia

AA.VV. (2006), PDM. Manuale Diagnostico Psicodinamico. Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2008.

Cohen, T. B., Etezady, H. M., Pacella, B. L. (2006), Il bambino vulnerabile. Armando Ed.

Dazzi, N., De Coro, A. (2001), Psicologia dinamica. Le teorie cliniche. Ed. Laterza, Roma

Eagle, M. N. (2012), Da Freud alla psicoanalisi contemporanea. Raffaello Cortina Editore, Milano

Fabbroni, B. (2008), Tra le braccia di Narciso. Ed. Univ. Romane, Roma

Freud, S., OSF [in particolare: (1914), Introduzione al narcisismo, tr. it. in OSF, Vol. VII, Boringhieri, Torino, 1985].

Gabbard, G. O. (1992), Psichiatria psicodinamica. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002

Galimberti, U. (2004), Le cose dell’amore. Feltrinelli, Milano

Giusti, E., Pacifico M., Fiume G. (2013), Confini terapeutici. Professionali e privati. Sovera Ed.

Giusti, E., Rapanà L. (2011), Narcisismo. Valutazione pluralistica e trattamento clinico integrato del disturbo narcisistico di personalità. Sovera Ed.

Kernberg, O. (1984), Disturbi gravi della personalità, Capp. 5 e 11, tr. it. Boringhieri, Torino, 1987.

McWilliams, N. (1994), La diagnosi psicoanalitica, tr. it. Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1999.

Mitchell, S.A. (1988), Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi, Parte IV, tr. it. Boringhieri, Torino, 1993.

Ovidio, Le metamorfosi, III Libro.

Recalcati, M. (2012), I ritratti del desiderio. Raffaello Cortina Editore, Milano

Sander, L.W. (2002), Pensare differentemente. Per una concettualizzazione dei processi di base dei sistemi viventi. La specificità del riconoscimento. tr. it. in Ricerca psicoanalitica, 2005, 3, pp. 267-300.

Stella, A. (2005), Lo specchio di Narciso e lo sguardo di Afrodite: esplorazioni psicoanalitiche sul narcisismo. Ed. Dedalo, Bari

Telfner, V. (2006), Ho sposato un narciso. Manuale di sopravvivenza per donne innamorate. Castelvecchi Editore, Roma

Westen, D., Shedler, J., Lingiardi, V. (2003), La valutazione della personalità con la SWAP-200. Raffaello Cortina Editore, Milano

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Romina Rubino Psicoterapeuta Italiana a Londra
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