“È proprio obbligatorio essere eccezionali? Io non lo so. Ma mi tengo stretta questa vita mia e non mi vergogno di niente. C’è una dignità immensa, nella gente, quando si porta addosso le proprie paure, senza barare, come medaglie della propria mediocrità.”
Castelli di rabbia – A. Baricco
Nel nostra società sembra trovare una sempre maggiore diffusione una forma di malessere che spesso si esprime attraverso stati d’ansia, o addirittura veri e propri attacchi di panico, che colpiscono praticamente tutti: giovani, adulti, studenti, madri, uomini d’affari, personaggi dello spettacolo.
Ma perché?
Nei primi del ‘900 una delle problematiche più diffuse era l’isteria, che colpiva prevalentemente le donne, le più danneggiate dalla cultura restrittiva di quel periodo . Un disturbo così diffuso, al tempo, che Freud ha praticamente fondato gran parte delle sue teorie sugli studi del fenomeno.
Nella società dell’epoca, fortemente repressiva e caratterizzata da molti tabù (soprattutto di natura sessuale), i sintomi isterici avevano il senso di esprimere una sorta di ribellione dell’inconscio alle tante inibizioni che la società imponeva.
Oggi, nell’epoca dell’esaltazione della libertà, in cui ciascuno è esortato ad essere diverso, ad esprimere ciò che pensa, i sintomi isterici hanno chiaramente perso il loro senso. Nonostante ciò, lungi dall’essere una società equilibrata e sana, la nostra si configura come una società in cui l’ansia ci accompagna in troppi momenti della nostra vita, dilaga in ogni contesto, allontanandoci da noi stessi.
Viene da pensare dunque, che qualcosa non funziona come dovrebbe, che questi sintomi esprimono semplicemente un disagio diverso da quello del secolo appena passato, ma che pur provocano sofferenza.
Le pubblicità da cui siamo bombardati spesso propongono modelli fisicamente prestanti, sicuri di sé, felici: praticamente perfetti. Ma siamo proprio sicuri che sia questa la felicità?
Nella cultura moderna, fondata sull’efficienza e sull’ideale della perfezione, il soggetto viene messo tra parentesi per diventare oggetto che mostra il proprio valore solo rispetto al ruolo che ricopre nella società in cui vive. Un processo di spersonalizzazione che non tiene conto di chi siamo davvero: esseri umani, unici, sensibili e perfetti nelle nostre imperfezioni.
Il risultato è che nel disperato tentativo di essere speciali, infallibili, spesso si finisce per mettere a tacere le proprie emozioni, soffocare i propri vissuti, seppellire intere parti di sé.
Ma se siamo inevitabilmente condannati all’imperfezione, mentre cerchiamo di raggiungere modelli che sono per definizione irraggiungibili, irreali, finti; se dobbiamo essere belli e sempre efficienti come macchine, allora l’ansia acquista un senso e un valore: ci ricorda chi siamo.
Ci dicono che dobbiamo essere eccezionali, diversi, distinguerci dalla massa. Ed è proprio così che, illudendoci di essere diversi, ci rendono tutti uguali. Omologati.
Allora vien da domandarsi: è davvero necessario essere eccezionali?
Oppure possiamo essere eccezionalmente noi stessi?