Romina Rubino
Psicologa, Psicoterapeuta Psicoanalista italiana a Londra
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Il ritmo del tempo

by Romina Rubino 03/06/2023
written by Romina Rubino

ABSTRACT:

Il tema del tempo ha attraversato come un filo rosso tutta la storia della conoscenza umana, continuando ad affascinare i pensatori di ogni epoca e ambito di studio. Dalla Filosofia alla Fisica, dalle Neuroscienze alla Psicoanalisi: chiunque si sia incuriosito della struttura dell’Universo e dell’essere umano ha incontrato ed è rimasto affascinato dai rintocchi del tempo.

Alla domanda: “Cos’è il tempo?” non credo esista un’unica risposta.
In linea con le ultime scoperte della Fisica quantistica infatti, credo che possa avere più senso pensare al tempo più che come una dimensione assoluta, come il prodotto di una serie di tempi: il ritmo di una musica che è il risultato del ritmo di strumenti diversi che si muovono in modi differenti eppure tutti sincronizzati, componendo un’unica sinfonia che è il tempo percepito da ciascun Io-Soggetto.

Il fisico Carlo Rovelli a proposito del tempo racconta come “Non solo non esiste un tempo comune a diversi luoghi, ma non esiste neppure un tempo unico in un singolo luogo. Una durata può solo essere associata a un movimento di qualcosa, a un percorso dato. Il “tempo proprio” non dipende solo da dove si è, dalla vicinanza o meno di masse, dipende anche dalla velocità a cui ci muoviamo.”

A partire dall’idea di Minolli per cui ogni Io-Soggetto è il risultato unico ed irripetibile di un intreccio tridimensionale di genetica, ambiente e cultura, vorrei esplorare il tempo come quarta dimensione che contribuisce e partecipa, insieme alle altre, alla configurazione di ciascun Io-Soggetto. In questa ipotesi, la dimensione temporale diventa uno degli elementi fondanti la configurazione, attraversando tutte le altre variabili: genetica, ambiente e cultura si muovono con un tempo proprio che influenza la configurazione dell’Io-Soggetto e ogni Io-Soggetto si sintonizza su quel ritmo a partire dalla propria configurazione.

In questo senso esistono forse tanti Tempi quanti Io-Soggetto nella storia dell’umanità e credo che come terapeuti siamo chiamati a sostenere il paziente nel poter cogliere all’interno della propria configurazione anche la dimensione temporale. Per poter partecipare alla danza terapeutica sintonizzandoci sul ritmo unico ed irripetible specifico di ogni terapia, credo sia importante poter riflettere su quali sono le dimensioni che contribuiscono a scandire quel ritmo.

In questo lavoro, attraverso la condivisione della mia esperienza personale e clinica, vorrei approfondire le mie riflessioni sugli aspetti principali che compongono la trama del tempo in una caleidoscopica esplorazione di come questa dimensione si può esprimere a livello genetico, ambientale e culturale imprimendo la sua particolare traccia nell’impronta digitale che è la configurazione dell’Io-Soggetto. 

Premessa 

Una cosa è il tempo con le sue molte determinazioni, 

altra è il semplice fatto che le cose non «sono»: accadono. 

Carlo Rovelli
in “L’ordine del tempo”

Prima di presentare il mio lavoro vorrei fare una premessa che ha a che fare con l’estrema fatica che incontriamo ogni volta che proviamo a riflettere sul tempo, o almeno con la fatica che ho incontrato io.

Mentre mi interrogavo sul tempo alla ricerca di risposte sulla sua natura, mi sono accorta che le domande cambiavano continuamente, in uno scenario paradossale in cui ogni volta che tentavo di fermare il tempo su questo foglio, mi rendevo conto che era già cambiato tutto e dovevo ricominciare daccapo. 

Ho scritto e riscritto questo mio lavoro numerose volte senza che possa ancora considerare di avere una versione definititiva, a cui ormai ho rinunciato. E penso che proprio qui risieda la fatica di occuparsi del tempo, cioè nella profonda trasfomazione di approccio a cui questo tema ci chiama: appena pensiamo di averlo catturato con una fotografia, il suo fluire trasforma di nuovo lo scenario, invitandoci a muoverci insieme a lui.

“Si tratta di tenere conto del fatto che un sistema, funzionando, si trasforma e che trasformandosi si modifica. Non si tratta di riflessività o di retroattività cibernetica (feedback), ma di considerare che ogni affermazione sull’essere umano si trasforma e non è quindi più la stessa nello stesso momento in cui viene affermata.” (Minolli)

E allora, quello che tenterò di fare nelle prossime pagine non è tanto di mostrarvi una fotografia del tempo, quanto un invito ad unirvi a me nel metterci in ascolto del suo ritmo.

Ma che significa cogliere il flusso del tempo? E perchè è così faticoso? 

Cogliere l’essenza del tempo per me significa avventurarsi lontano dal porto sicuro delle idee assolute e universali e procedere con un pensiero che si avvicina di più al misticismo orientale che, nelle parole di Lama Govinda, “consiste sopratutto nel girare intorno all’oggetto della contemplazione… un’impressione sfaccettata, cioè pluridimensionale che si forma dalla sovrapposizione di singole impressioni ottenute da punti di vista differenti.”

Il Tempo non esiste

“Per quanto tempo è per sempre?”
chiese Alice

“A volte solo un secondo”
rispose il Coniglio Bianco 

Lewis Carroll

in “Alice nel paese delle Meraviglie”

Un paio di anni fa nel mio giardino di Londra ho piantato -in perfetto stile british– 4 piante di rose. In quel momento mi fu detto che le rose hanno un tempo di assestamento di circa 2 anni da quando vengono piantate. 

Ricordo che mi affascinò scoprire che persino le piante, sistemi complessi eppure molto più semplici di un essere umano, avessero un loro tempo. 

Per questo nei successivi 2 anni le ho osservate con curiosità mentre si sviluppavano a partire da condizioni simili: stessa età, stesse condizioni metereologiche, stesso terreno.

Ciononostante ogni rosa nel suo processo di sviluppo sembrava seguire un ritmo diverso, il che mi è sembrato ancora più interessante: cioè non solo le piante di rose hanno un loro tempo, ma ogni rosa ha il suo tempo. 

Allora, ho pensato che se le piante hanno un proprio tempo ogni essere umano può avere un proprio ritmo, avere cioè un tempo soggettivo.

In accordo con Minolli, “L’lo-soggetto concreto che ha un nome e un cognome e che, oltre a essere uno, con più parti e in rapporto con l’ambiente, ha un suo particolare processo evolutivo specifico.” e – aggiugo- un suo tempo. 

Già i filosofi dell’antica Grecia avevano distinto almeno 2 parole per parlare del tempo: Chronos, un gigante terribile e potente che divora i propri figli, per indicare lo scorrere dei minuti e quindi la natura quantitativa del tempo. E Kairos, un giovanotto con le ali ai piedi sempre in movimento, per cogliere l’aspetto qualitativo, indeterminato, soggettivo del tempo.

Tentare di acciuffare Kairos, per definizione sempre in fuga, implica rinunciare alla seppur terribile stabilità di Chronos, rappresentante di un tempo assoluto e universale che scorre allo stesso modo per tutti.

Le equazioni della Fisica quantistica descrivono molto bene questo passaggio dove “la singola quantità «tempo» si frantuma in una ragnatela di tempi” e dove la visione monolitica della dimensione tempo si trasforma in uno sguardo caleidoscopico di tempi che evolvono uno rispetto all’altro. Per dirla con Carlo Rovelli: “Il mondo non è come un plotone che avanza al ritmo di un comandante. È una rete di eventi che si influenzano l’un l’altro. Così dipinge il tempo la teoria della relatività generale di Einstein. Le sue equazioni non hanno un tempo, ne hanno innumerevoli.” 

In questo senso il tempo, così come lo avevamo sempre conosciuto non esiste più.

Questo passaggio straordinario, doloroso, sconvolgente da una visione del tempo e del processo dell’io-soggetto come assoluta, lineare, universale, a uno sguardo specifico, irripetibile, soggettivo è stata la mia personale rivoluzione copernicana in ambito clinico. 

Lasciata alle spalle l’idea del tempo come coordinata assoluta e indipendente, si apre lo spazio per una nuona visione in cui “le coordinate spazio e tempo sono soltanto elementi di un linguaggio che viene usato da un osservatore per descrivere il suo ambiente”. M. Sachs 

Quindi ogni Io-soggetto è inserito in uno spazio-tempo specifico con il quale interagisce a partire dalla sua configurazione: ciascuno legge che ora è in modo soggettivo, a partire cioè dal suo orologio, che è un orologio simbolico con il quale misura, percepisce e attraverso cui interagisce con lo spazio-tempo in cui è inserito. 

Un’idea simile si trova nella Psicologia del Tempo, o Orientamento temporale ideata da Phil Zimbardo, che studiando la relazione che ciascuno di noi ha con il tempo, distingue dei Profili temporali che corrispondono ad uno specifico stile emotivo, cognitivo, motivazionale che hanno un impatto tanto sul piano comportamentale quanto sul vissuto esperienziale del soggetto. (Stolarski et. al. 2014; Zimbardo e Boyd, 2008)

Un approccio interessante che, al di là delle categorie, mi sembra apra la strada all’esplorazione della visione soggettiva del tempo di ciascuno di noi.

Potremmo dire che ogni Io-soggetto suona una melodia unica ed irripetibile, come un’orchestra in cui i diversi strumenti si armonizzano per confluire in una sinfonia che è la musica di ciascuno di noi. In questo senso credo che il processo terapeutico consista nel sedersi, insieme al paziente, mettendoci in ascolto profondo di questa sinfonia, assistere cioè, insieme, al suo concerto. 

Ma per poterci immergere nel ritmo della musica di ogni Io-soggetto ed imparare ad apprezzarne insieme a lui tutte le sfumature, credo possa essere utile soffermarsi singolarmente sugli strumenti principali che la compongono che sono: ambiente, genetica e cultura per esplorarne da vicino il ritmo che contribuisce a comporre la dimensione temporale soggettiva.

1. Il tempo dell’Ambiente 

Il tempo viaggia in posti diversi con persone diverse.

Ti dirò con chi il tempo va all’ambio, con chi al trotto,
con chi al galoppo, e con chi sta fermo.

William Shakespeare
in “Come vi piace”, Atto III, Scena II

Il tempo cambia a seconda dei luoghi. L’ho imparato grazie alle sedute online quando cerco di accordarmi con i miei pazienti spesso sparsi per tutto il mondo. Gli scambi avvengono più o meno così:
“Che ora è da te?”
“Ci vediamo alle mie 10.00 che sono le tue 11.00”

Capra, in Il Tao della fisica spiega che “Lo spazio è curvo in misura diversa e il tempo scorre diversamente in punti diversi dell’universo. Siamo quindi giunti a comprendere che le idee di spazio euclideo tridimensionale e di tempo che scorre linearmente sono limitate alla nostra esperienza ordinaria del mondo fisico e devono essere completamente abbandonate quando ampliamo la nostra esperienza.” 

Ma se Chronos si muove diversamente a seconda dei luoghi, che cosa accade a Kairos?
E cioè, che rapporto c’è tra il tempo soggettivo e il tempo del luogo in cui l’Io-soggetto si muove?

Esplorare le possibili risposte a queste domande significa cogliere ad un nuovo livello il senso di quel “che ora è da te?”, dove “da te” può diventare una richiesta di sintonizzarsi sul ritmo soggettivo dell’altro. 

Ma per spiegare meglio cosa intendo quando mi riferisco al tempo dell’ambiente vi accompagno nella metro di Londra nell’ora di punta a fare un’esperienza che ho scoperto essere molto comune anche tra i miei pazienti. Attenzione, perchè ci sarà un po’ di traffico.

Appena arrivata alla mia fermata, scendo e mi infilo spedita nel labirinto tra i corridoii sotterranei e le scale mobili. Un fiume di gente, ordinato e silezioso, scorre veloce accanto a me. Si crea un’atmosfera particolare: ci sono centinaia di persone, nessuno parla, c’è un silenzio etereo e si sente solo un ritmo incalzante creato dai passi svelti della gente che è lì. Mi sento quasi ipnotizzata, catturata da questo ritmo che sembra accelerare sempre più, finchè non mi fermo e mi accorgo che, nonostante non abbia alcun impegno urgente, sto correndo. 

E allora mi sono chiesta: è la città che corre, o sono io che sto correndo dietro alla città? 

All’epoca non capivo ancora il senso di quella domanda che era fiorita spontaneamente dentro di me. Tutto ciò che so è che quel momento mi aveva conficcato nel cuore un “perché?”.

Basta spostarsi in un paesino del sud Italia per vivere un ritmo completamente diverso che si muove sul rintocco lento delle campane della piazza, dove gli anni passano ma tutto sembra ripetersi, nello scandirsi di un tempo sincopato che sembra sempre uguale a se stesso.
Di contro, la percezione diffusa del tempo londinese è di un “tempo accelerato”. D’altronde il tempo a Londra resta il bene più prezioso e se volete vedere un inglese arrabbiarsi provate a fargli perdere tempo, magari stando fermi sul lato sinistro delle scale mobili (perchè quì si corre anche mentre il pavimento sotto di te è già in movimento). 

Insomma, al di là dei fusi orari, mi sembra che anche i luoghi possano avere un ritmo specifico con cui il soggetto interagisce a partire da se stesso e quindi a partire anche dal proprio tempo soggettivo. 

Per questo a volte i luoghi si prestano come situazioni perfette a cui delegare la nostra fatica di trovare il nostro tempo. Come un mio paziente che, esasperato dal ritmo insostenibile per lui di questa città, mi ha raccontato entusiasta, al ritorno dalle ferie, di come sia stato bene in un’isola della Grecia dove “ho finalmente trovato il posto dove c’è il tempo giusto per me”. I motivi per cui non riesca a vivere il ritmo dell’isoletta greca a Londra sono ancora oggetto delle nostre sedute, nel tentativo di cogliere il suo attribuire alla città ciò che, invece, è dentro di sè.

In questo senso “la delega non può essere una soluzione, ma solo un momento del processo del soggetto. Fare i conti con la delega è una possibilità che l’essere umano possiede. Si tratta di una qualità con cui, nel riconoscimento della propria storia e della tendenza a sentirsi esistente, il soggetto può darsi una propria consistenza.” (Minolli)

Quindi, cosa ce ne facciamo dei tempi di una città credo che abbia a che fare sia con la configurazione che con la creatività di ciascuno di noi e che parte del processo terapeutico consista proprio nel cogliere assieme al paziente questi aspetti. Fermarsi e chiedersi, cioè: “Che ora è per  te in questo momento?” 

Penso che come terapeuti, per poterci sintonizzare sul ritmo dell’altro, dobbiamo prima imparare a conoscere il nostro ritmo, esplorare cioè il nostro tempo soggettivo. È solo a partire dalla conoscenza profonda del nostro tempo che possiamo accompagnare l’altro a mettersi in ascolto del suo ritmo.  

2. Il tempo Biologico o Genetico 

«Qual è l’animale che 

di mattina cammina a quattro zampe, 

a mezzogiorno con due 

e alla sera con tre?»

L’enigma della Sfinge

La risposta all’enigma più antico che conosciamo, cioè quello della Sfinge è: l’uomo.
L’essere umano attraversa la vita gattonando incerto, a quattro zampe, quando è piccolo, con passo veloce e deciso, su due gambe, quando è adulto e con un lento incedere, appoggiandosi ad un bastone, quando è anziano.

Le fasi di vita che attraversiamo assomigliano un po’ ad un fiume le cui acque non scorrono mai allo stesso modo lungo tutto il percorso, ma con ritmi differenti a seconda del terreno, della sua pendenza, della stagione e delle condizioni del fondale. 

Così anche l’esistenza dell’essere umano è scandita da ritmi diversi che cambiano a seconda della fase di vita che stiamo attraversando: il tempo di un ventenne non può essere lo stesso tempo di un ottantenne. Ma in che modo il tempo biologico-genetico incide sul tempo soggettivo?  

Eraclito dice che “Nessun uomo entra mai due volte nello stesso fiume, perché il fiume non è mai lo stesso, ed egli non è lo stesso uomo.” 

Allora mi sono chiesta in che rapporto si trovano il divenire di ogni uomo e quello del fiume?

Non solo le stagioni della vita, ma anche gli eventi che possono far parte del processo dell’essere umano come l’innamoramento, la maternità, la malattia (per citarne alcuni) ci pongono di fronte alla possibilità di un cambio di ritmo. Ogni Io-soggetto può riorganizzare il proprio tempo soggettivo anche a partire da questi eventi e dalla fase di vita in cui si trova in una circolarità di trasformazioni temporali reciproche. 

Di fronte alla scoperta di una malattia grave c’è chi rallenta e chi prende la rincorsa per andare ancora più veloce, perchè l’effetto che un determinato evento può avere sul ritmo dell’Io-soggetto è sempre specifico e legato all’unicità di quel soggetto in quel momento.

E quindi più che chiederci che succede ad un uomo quando entra in un fiume, forse ha più senso chiederci cosa accade a quell’uomo che entra in quello specifico fiume. 

Kairos con le ali ai piedi, corre veloce sul confine tra pericolo e opportunità, per questo è spesso annunciato da una crisi, che diventa la possibilità di partecipare ad una nuova creazione che colma lo strappo tra un vecchio ed un nuovo modo di essere, segnando il passaggio ad un ritmo inedito.  

3. Il tempo della Cultura

Cosa misteriosa il tempo: potente e,
quando ci s’intromette, 

pericolosa.


Albus Silente in 

“Harry Potter e il prigioniero di Azkaban”

Anche la cultura ha un suo ritmo. Non a caso diciamo ‘il nostro Tempo” per indicare l’epoca storica in cui viviamo. Il tempo in cui nasciamo dice qualcosa di noi ed inevitabilmente diventa uno degli elementi che dobbiamo tenere in considerazione nel sintonizzarci sul nostro ritmo.

Nel suo libro “La Psicologia dei soldi” Morgan Housel racconta come anche quando parliamo di investimenti economici e decisioni d’affari le nostre scelte sono tutt’altro che razionalmente calcolate, quanto invece, inestricabilmente legate alla nostra storia personale e alla visione del mondo propria di ciascuno. 

Secondo Housel il modo in cui investiamo i nostri soldi è fortemente correlato (tra altri elementi) alla situazione economica del periodo storico in cui siamo cresciuti: così, chi è cresciuto in un periodo di boom del mercato immobiliare avrà una forte tendenza a considerare quell’investimento il più redditizio. 

Se questo è vero per gli investimenti economici, forse la stessa cosa vale per il ritmo del tempo in cui nasciamo e cresciamo. Infatti, a prescindere dalle singole culture, le cui differenze sembrano sempre più sbiadite in un mondo globalizzato, viviamo in un tempo che definirei del Bianconiglio. Un tempo di mitizzazione della velocità, dal ritmo incalzante, al suono di “Presto! che è tardi!”.

A questo, forse, possiamo ascrivere lo spopolare di testi e tecniche che promettono di  “massimizzare il proprio potenziale”. Uno tra tutti il famoso libro dal titolo: “Limitless. Tutto è possibile! Apri la mente, impara velocemente e vivi senza limiti” nel quale l’autore Jim Kwik, brain coach delle celebrità, è uno dei tantissimi che propone strategie pratiche per produrre cambiamenti radicali attraverso l’apprendimento rapido e uno sviluppo veloce di competenze.

Tutto questo avrà forse a che fare con il fatto che molti dei miei giovani pazienti mi raccontano che soffrono perchè si sentono lenti? E quando rispondo chiedendo: “lento rispetto a cosa?” la risposta è fulminea: “ rispetto alla società”. 

Se l’ossessione del nostro Tempo è non sprecare il tempo, la compulsione che l’accompagna è abbuffare il proprio tempo di esperienze. Cioè, per dirlo con le parole dei miei pazienti: “Dottoressa, ho la FOMO!”, acronimo inglese che sta per Fear of Missing Out, ovvero “paura di rimanere escluso” che si esprime attraverso “un pensiero costante che gli altri stiano facendo qualcosa di più interessante di quello che stiamo facendo noi. E che ci stiamo perdendo qualcosa.” (Treccani)

 “Il benessere materiale aumenta, i consumi imperversano, ma la gioia di vivere non segue lo stesso ritmo, l’individuo iper-moderno perde in leggerezza di vivere quello che guadagna in rapidità operativa, in conforto, in allungamento del tempo di vita”. Lipovetsky (2004, p. 119)

Anche l’angoscia diffusa di sprecare tempo, di essere lenti, di perdersi le esperienze però, penso possa acquisire un senso se letta come un passaggio del processo dell’io-soggetto in un costante movimento dialettico tra delega e ritorno a sè. In un viaggio esistenziale a quattro zampe prima, su due gambe poi, appoggiandosi ad un bastone verso la fine in cui ciascuno di noi procede, come può, nel suo flusso tra essere e divenire.

I rintocchi del tempo

“L’uomo assomiglia ai suoi tempi 

più di quanto assomigli a suo padre.” 

Guy Bebord 

Credo che gran parte della sofferenza a cui assistiamo nei nostri studi e nelle nostre vite abbia a che fare con il tempo, in particolare con la fatica che caratterizza l’essere umano a stare al passo con il suo fluire. 

Soffrire significa avere profondamente a che fare con la rigidità con cui spesso ci aggrappiamo ad alcune fasi della vita, con l’ostinazione con cui cerchiamo di rimanere attaccati ad un determinato tempo.

Sembra che sia più facile pensare di poter fermare il grande pendolo cosmico che unirsi al suo movimento, forse perchè occuparsi del tempo significa pensare alla morte.

A questo proposito vorrei raccontare una breve storia che parla di un uomo che, rincorso da una tigre, giunge davanti ad un precipizio e vi si cala, aggrappato ad una radice. Mentre la tigre lo fiuta dall’alto, volge il suo sguardo tremante verso il basso dove scorge una seconda tigre pronta a divorarlo. In quel momento l’uomo nota accanto a sè una piccola fragola. Con l’altra mano la coglie e assapora la sua dolcezza.

Sospesi in un dirupo, attanagliati tra il tempo della nostra nascita e quello della nostra morte, abbiamo l’occasione di cogliere il senso più profondo della nostra esistenza. 

È solo quando ci permettiamo di guardare negli occhi le due tigri, toccando il nostro limite ultimo, che è quello del tempo, che possiamo andare oltre le rigidità che pure ci appartengono e imparare a scorrere, per scoprire che l’essere umano non entra nel flusso del divenire ma è quel flusso.

Questo articolo è stato pubblicato negli atti del convegno:
“ANDARE AVANTI” IL TEMPO NEL PROCESSO DELL’ESSERE E DIVENIRE DELL’IO-SOGGETTO

organizzato da SIPRe (Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione)

Bibliografia:

Govinda A. , Logic and Symbol in the Multi-Dimensional Conception of the Universe, in “Many Currents”, XXV (1969), p. 60.

Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Kairos

“Chronos time will eat us alive if we do not constantly keep track of it and try to control it” – https://dobetter.esade.edu/en/time-kronos-kairos

Rovelli C. –  L’ordine del tempo (Opere di Carlo Rovelli Vol. 2)

Sachs M., Space Time and Elementary Interaction in Relativity, in “Psysics Today”, XXII (1969), p. 53 

Capra F., Il Tao della Fisica 

Housel M., La psicologia dei soldi: Lezioni senza tempo sulla ricchezza, l’avidità e la felicità. 

Kwik J., Limitless. Tutto è possibile! Apri la mente, impara velocemente e vivi senza limiti.

https://www.treccani.it/vocabolario/fomo_%28Neologismi%29/

Reps P., Senzaki N., 101 Storie Zen 

Zimbardo P., The time paradox

Michele M., Essere e divenire

03/06/2023 0 comments
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Nessuno è te e questo è il tuo potere

by Romina Rubino 16/02/2022
written by Romina Rubino

Quando arriva un nuovo paziente di solito la prima domanda che fa è di essere trasformato in qualcosa di diverso da ciò che è: chi è ansioso vuole diventare calmo, chi si sente debole si desidera forte, chi è spaventato vuole trovare il coraggio.

Si tratta di un’idea che spesso deriva dal paragonarci continuamente agli altri, un’abitudine che ci spinge a pensare non solo che la vita degli altri è sempre migliore della nostra, ma che ci fa perdere in un’immagine idealizzata dell’Altro che, diversamente da noi, sarebbe così sempre felice, riuscendo ad evitare la sofferenza.
Così ci convinciamo che se riusciamo ad assomigliare un po’ di più a quel personaggio famoso o a quell’amico popolare sempre di buonumore allora saremo finalmente felici.

All’inizio del percorso le aspettative di trasformazione sono spesso molto alte e sono accompagnate da una bassa autostima: dalla convinzione cioè, che se soffriamo è perché ci manca qualcosa che speriamo il terapeuta possa fornirci, guarendoci.

C’è un momento però in cui smettiamo di desiderarci diversi e iniziamo a valorizzare chi siamo con i nostri limiti e le nostre risorse. É quello il momento in cui inizia un lavoro più profondo, in cui siamo grati per la nostra storia, per quanto difficile possa essere stata, perché è anche grazie al dolore che abbiamo vissuto che oggi siamo noi stessi.

Realizziamo che i nostri limiti fanno parte di noi e che non abbiamo bisogno di liberarcene per andare bene.
Smettiamo di pensare che dobbiamo cambiare il nostro corpo, che dobbiamo deformarci fino a diventare irriconoscibili ed estranei a noi stessi e iniziamo ad amarci per ciò che siamo oggi, con tutti i nostri “difetti”.

Non abbiamo bisogno di essere qualcun altro per essere amati, abbiamo bisogno solo di sintonizzarci con noi stessi e di iniziare ad amarci per primi con tutte le nostre cicatrici.

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Paragonarsi agli altri

by Romina Rubino 16/02/2022
written by Romina Rubino

Paragonarci agli altri è uno degli atteggiamenti più diffusi con cui spesso ci autosabotiamo.

La cultura in cui viviamo ci spinge più che in passato a paragonarci agli altri. Attraverso i social siamo continuamente esposti alle immagini (apparentemente) felici degli altri e finiamo per pensare di essere gli unici a soffrire, sentendoci sempre più soli.

Alla base di questa tendenza di paragonarci agli altri c’è un meccanismo evoluzionistico che affonda le sue radici nell’infanzia: quando siamo piccoli infatti impariamo a stare al mondo attraverso l’imitazione delle figure di riferimento. Una volta che diventiamo adulti però, facciamo fatica a pensare a noi stessi come soggetti unici e irripetibili e continuiamo a confrontare il nostro percorso con quello degli altri nel tentativo inconscio di sentirci parte della società.

Quando questo tipo di atteggiamento assume le sue forme più estreme finiamo per pagare un prezzo molto alto: non riusciamo a percepire e a godere delle tante ricchezze che abbiamo perché nel frattempo il nostro sguardo è rivolto alle ricchezze degli altri e ci perdiamo in un vortice fatto di bassa autostima e invidia.

Ciascuno ha il proprio percorso, la propria storia, tempi e risorse diversi e pensare di potersi confrontare con i percorsi degli altri non solo non ci aiuta, ma non è possibile!

In questo video approfondiamo insieme:

👉🏻perché non ha senso paragonare la propria vita a quella degli altri da dove nasce questo atteggiamento
👉🏻come riconoscere quando accade e cosa fare quando ce ne rendiamo conto

🌻Ti è mai capitato di fare paragoni? Senti che è un qualcosa che ti aiuta?

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Di coccinelle e larve interiori

by Romina Rubino 16/02/2022
written by Romina Rubino

La settimana scorsa ho fatto una cosa che non avrei mai pensato di fare: ho comprato delle coccinelle!

Quando uno degli alberi del giardino è stato infestato da strani insetti neri, il mio primo istinto era di cercare di liberarmene il prima possibile. Ero spaventata, perché non li avevo mai visti e sentivo un forte senso di invasione.

La soluzione più semplice sarebbe stata comprare un veleno e superare velocemente il problema.
Ho deciso però di fermarmi e fare qualche ricerca, ho pensato che valesse la pena provare a capire ed è così che ho scoperto che una soluzione diversa esiste e sono proprio le coccinelle, che si nutrono delle larve di altri insetti parassiti proteggendo i giardini.

Mentre liberavo le coccinelle che mi sono arrivate per posta il giorno dopo (!) mi sono fermata a riflettere su come quando ci muoviamo spinti dalla paura finiamo per liberarci frettolosamente da situazioni che invece potrebbero rivelarsi preziosi momenti di crescita.

Se ci fermiamo a riflettere e ci incuriosiamo delle nostre “larve interiori”, forse possiamo scoprire che invece, possono diventare utili alleati e aiutarci a mantenere rigogliosi i nostri giardini interni.

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body shamingil corpo delle donneLondon lifestereotipi di genere

Imparare a dire di no: mettere i confini

by Romina Rubino 01/06/2021
written by Romina Rubino

Nel 1974 l’artista Marina Abramovic, famosa per le sue performance particolari ed intense, organizza a Napoli un evento mirato ad esplorare il corpo e la mente umana nelle sue manifestazioni più estreme.

In “Rhythm 0” Marina rimane per 6 ore in piedi, immobile in mezzo al pubblico che viene invitato ad utilizzare una serie di oggetti lasciati a disposizione.
Circondata da rose, piume, miele, profumo, ma anche forbici, scalpelli, lamette e una pistola carica, Marina Abramovic lascia decidere al pubblico se e come usare gli oggetti presenti. Su un biglietto che racchiude le istruzioni della performance si assume la completa responsabilità di cosa accadrà e si impegna a non reagire, a non difendersi, comportandosi come un oggetto. 

Nelle 6 ore successive il pubblico inizia ad interagire con il corpo inerme di Marina in modo del tutto inaspettato in una veloce escalation di violenza che si conclude con una persona che le punta una pistola alla testa. 

Ma la parte più interessante arriva quando allo scadere del tempo Marina smette di essere oggetto e camminando verso il pubblico ritorna essere umano.
È quello il momento esatto in cui tutti scappano via, in cui il pubblico, come risvegliato da uno stato di trance, si sottrae alla possibilità di un confronto, incapace di affrontare Marina come soggetto. 

Questa performance, che mi ha affascinata profondamente, ci racconta cosa accade quando non riusciamo a mettere dei confini, quando facciamo fatica a difenderci dicendo di no.
Racconta di quanto è importante imparare a tutelare i nostri spazi e, con delicatezza ma con decisione, mettere dei limiti a ciò che l’altro può fare di noi. 

Sono tanti i motivi per cui spesso facciamo fatica a tutelare noi stessi e ci ritroviamo a dire di sì quando profondamente sappiamo che stiamo dicendo no a noi stessi. 
Imparare a tutelare e rispettare ciò che sentiamo profondamente senza sensi di colpa e liberi dal timore di essere abbandonati dall’altro è uno degli aspetti che si può affrontare all’interno della terapia. L’obiettivo, come sempre, è comprendere cosa ci spinge a reagire in un certo modo e solo dopo, quando sentiamo di essere pronti, trovare il tempo e il modo giusti per noi per incoraggiarci a fare qualcosa di diverso. 

Il senso di libertà che sperimentiamo quando impariamo a rispettarci ci permette di vivere con noi stessi e con gli altri e di costruire rapporti più sani, liberi da rancori inconsci e dal peso dell’aspettativa che possiamo avere nei nostri confronti come verso l’altro. 

👉🏻 Nel video ci occupiamo del perché facciamo così fatica a dire di no, finendo a volte in situazioni dolorose e dalle quali sembra impossibile uscire e di come invece possiamo promuovere dentro di noi un atteggiamento più attento e comprensivo delle nostre più profonde esigenze.

01/06/2021 0 comments
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London lifeUncategorized

Un raggio di sole a Londra

by Romina Rubino 01/06/2021
written by Romina Rubino

Essere italiani a Londra significa tante cose difficili da spiegare, una di queste è sicuramente imparare ad apprezzare una giornata di sole. 

Spesso sento dire che Londra è una città grigia, io penso invece che sia una buona maestra: non ti regala niente, a volte sembra ti stia privando delle cose più importanti e invece ti guida solo verso i tuoi desideri, ti spinge a capire quanto fortemente vuoi ciò che dici di voler raggiungere. 

Se oggi ho fatto di tutto per godermi qualche ora di sole è perché ho imparato ad apprezzarne il valore: ho imparato che prendersi cura di sé significa anche lasciarsi dietro le strade a volte troppo trafficate del fare e semplicemente stare. 

Sembra semplice e invece ci vuole coraggio, è forse l’obiettivo ultimo e più difficile di una terapia: saper stare in compagnia di se stessi, delle proprie parti più fragili, di quegli aspetti di noi che proprio non sopportiamo. Significa resistere alla tentazione di cambiarle, rinunciare al desiderio di essere sempre qualcosa di diverso da ciò che siamo. 

Oggi mi sono fermata e ho vissuto.

Quante cose si possono imparare da un solo raggio di sole…

01/06/2021 0 comments
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stereotipi di genere

Omofobia

by Romina Rubino 01/06/2021
written by Romina Rubino

Molto spesso si parla di omosessualità, raramente si approfondisce invece quali siano le radici dell’omofobia. 
L’omofobia è il timore ossessivo di scoprirsi omosessuale e l’avversione nei confronti degli omosessuali.
Al contrario dell’omosessualità, che è uno degli orientamenti sessuali naturalmente possibili, l’omofobia è una patologia.

Omofobi non si nasce, ma come per tutte le forme di pregiudizio omofobi si diventa attraverso le spinte dirette e indirette che la cultura e la famiglia ci trasmettono.

Quando i bambini sono disinformati, diseducati alla diversità, all’alterità che ciascuno di noi in qualche modo rappresenta per l’altro, si finisce in una società in cui le minoranze divengono vittime di bullismo e di discriminazione,società in cui non importa più chi sei, qual è la tua storia, quanti passi hai percorso o quanto hai sofferto, ma in cui vieni giudicato solo perché sei donna (e quindi incapace), o sei nero (e quindi inferiore), o sei omosessuale (e quindi strano)…

L’omofobia, avversione verso l’omosessualità e gli omosessuali, è legata all’ignoranza, alla paura di ciò che è diverso da noi e che non conosciamo. 
Il diverso ci spaventa perché ci costringe ad aprire la mente, ci invita a scombinare gli schemi che ci eravamo costruiti e a riorganizzare le nostre idee in un modo nuovo. 

É più facile e più comodo tentare di restringere la complessità della realtà in poche categorie conosciute e ammettere che esistano solo quelle cui sentiamo di appartenere. La realtà però ci chiama ad aprire la mente e a conoscere e a rispettare anche chi può essere molto diverso da noi. 

Londra sa essere una grande maestra, almeno lo è stata per me in tema di inclusione. 
Sicuramente è una grande finestra sulla complessità della vita e forse per questo qualcuno dice che Londra sia il mondo raggruppato in una sola città. 

Comodamente seduta sul sedile di una metro, tante volte mi sono soffermata a scrutare i volti, immaginando di percorrere le storie delle persone davanti a me.
Ho viaggiato, ma stavo facendo in realtà un viaggio molto più lungo di quello che potessi immaginare. Mentre mi perdevo tra i colori dei vestiti tradizionali, gli occhi a mandorla, i capelli blu e tatuaggi, le mani intrecciate di due ragazzi innamorati ero nel cuore del mondo. 

Londra mi ha insegnato la diversità, mi ha insegnato che esiste una realtà per ogni sguardo che la vive e che il compito più importante che abbiamo è lasciar fiorire il nostro vero sé, lontani da pregiudizi e stereortipi.

Mi ha insegnato l’inclusività, il rispetto per la soggettività dell’altro e per tutto ciò che è diverso da me: un arcobaleno di colori, di orientamenti, di forme, di culture, di pensieri tutti diversi ma che se messi insieme possono creare uno spettacolo strabiliante. 

Londra è semplice ma complessa, colorata, inclusiva, diversa. É l’esempio che è possibile un mondo in cui tutti vengono rispettati per ciò che sono: semplicemente se stessi. 

Quando ci permettiamo di andare oltre la paura e di avvicinarci all’altro, scopriamo un mondo di emozioni, di vissuti, di dolore e lacrime che magari assomigliano alle nostre più di quanto potevamo immaginare.

In questo video approfondiamo:
🌈cos’è l’omofobia e come nasce
🌈quali possono essere i significati profondi di questa fobia
🌈perché è importante che tutti promuoviamo una cultura inclusiva 

01/06/2021 0 comments
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Pet therapy: la terapia con gli animali

by Romina Rubino 03/05/2021
written by Romina Rubino

Da quando Jimmy è entrato nella mia vita mi ha insegnato molte cose su come vivere bene e su di me: 

🌿 attraverso di lui ho imparato l’importanza di difendere i propri spazi e di rispettare i propri tempi 
🧘🏻‍♀️ ho allenato la pazienza e la costanza
🦋 ho iniziato a notare suoni, odori e colori che prima mi sfuggivano

Chiunque abbia avuto un animale nella propria vita conosce il potere terapeutico di una coda! 

Oggi vi racconto la storia di Jofi, uno dei cani di Freud. 
Molti lo conoscono come il padre della Psicoanalisi, ma pochi sanno che fu il primo a intuire l’effetto curativo che gli animali possono svolgere sulla mente umana.

Inizialmente Freud non amava particolarmente i cani, finché non decise di comprare un cane per sua figlia per proteggerla durante le sue passeggiate in città. Come spesso vediamo accadere ai padri moderni, Freud fu travolto dall’affetto per questo cane e presto decise di prenderne uno per sé.

Jofi e Freud diventarono inseparabili anche quando lui era nel suo studio a lavorare con i suoi pazienti.
Più Freud conosceva i cani e più scopriva la loro abilità di leggere la mente umana e di saper dare conforto nei momenti difficili.
Lo provò personalmente quando, malato terminale di cancro, scrisse ad un amico: “Vorrei che avessi potuto vedere quanto affetto Jofi mi ha dato in questi giorni infernali, come se capisse tutto.”

L’ipotesi di Freud che i cani abbiano un effetto rilassante sulle persone è stata successivamente confermata in numerosi studi. 
Durante una ricerca per esempio, i partecipanti dovevano svolgere delle funzioni cognitive stressanti mentre veniva monitorata la loro pressione sanguigna. 

Si sono poi divisi i soggetti in 3 gruppi con condizioni diverse: 

  • al primo gruppo è stato affiancato un cane; 
  • al secondo gruppo è stato chiesto di pensare ad un cane; 
  • il terzo gruppo (di controllo) non aveva animali coinvolti

I risultati hanno mostrato come i soggetti accompagnati da un cane o che stavano anche solo pensando ad un cane hanno mantenuto un livello di pressione più basso rispetto al gruppo di controllo.

Gli animali possono avere un’influenza importante in tutta la nostra vita.
Pensa a quante cose puoi imparare da un cane:

Quando una delle persone che ami torna a casa accoglila sempre con entusiasmo.

Non rinunciare mai all’opportunità di divertirti.

Quando è nel tuo interesse, pratica l’obbedienza. 

Fai capire chiaramente agli altri quando hanno invaso il tuo spazio. 

Fai pisolini e stiracchiati prima di alzarti.

Corri, gioca e fai qualcosa di divertente ogni giorno.

Evita di mordere quando puoi risolvere con un semplice ringhio.

Nei giorni di sole, stenditi con la schiena sul prato.

Nei giorni caldi, bevi molta acqua e stenditi all’ombra sotto un albero.

Quando sei felice, balla e muovi tutto il tuo corpo. 

Non importa quante volte verrai rimproverato, non ti abbandonare al senso di colpa e al broncio, torna indietro e fai amicizia.

Goditi la semplice bellezza di una lunga passeggiata. 

Mangia con gusto ed entusiasmo. Fermati quando senti che è abbastanza.

Sii fedele.

Non fingere mai di essere qualcosa che non sei.

Se quello che desideri è sepolto sottoterra, scava finché non lo trovi. 

E soprattutto…

Quando qualcuno sta attraversando una brutta giornata, resta in silenzio, siediti vicino e dai un colpetto gentile col naso!

Nel video:

🐾 esploriamo la Pet Therapy, cioè la terapia con gli animali 

🐾 scopriamo qualche curiosità su come Jofi aiutava Freud durante le sedute

🐾  approfondiamo come una coda può cambiare la nostra vita 

03/05/2021 0 comments
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stereotipi di genere

Il senso di inadeguatezza: “non sono abbastanza”

by Romina Rubino 25/04/2021
written by Romina Rubino

“Glielo dico subito, oggi ho le lacrime in tasca!”
“Va bene, svuotiamo le tasche.”

Giada è una manager e, come spesso accade a chi ricopre questi ruoli, oggi ha ricevuto delle valutazioni dai suoi colleghi di lavoro.

È una donna in gamba, ha studiato e sudato tanto per arrivare dov’è e conquistarsi quel posto tanto desiderato. Eppure, nonostante le decine di riscontri positivi ricevuti in tutto il suo percorso, sembra non vedere altro che il commento anonimo di un collega che le rimanda un’immagine dolorosa di sé: 

‘Troppo concentrata su se stessa, poco propensa ad ascoltare l’altro e troppo intenta ad essere la prima della classe’.

Un commento diretto che con la ferocia di un morso sembra essersi mangiato tutto il resto, arrivando dritto al cuore di Giada, al centro delle sue paure e cancellando ogni obiettivo raggiunto finora.

Conosciamo tutti persone molto determinate, apparentemente molto sicure di sé, che sembrano non avere mai un dubbio, un momento di esitazione.
Giada è una di queste persone, dall’esterno a volte può suscitare antipatia o invidia, ma nella magia della stanza d’analisi dove tutto può cambiare ed essere visto sotto un’altra luce, Giada è una bambina spaventata.

Quando le chiedo se è vero che ha bisogno di avere sempre ragione, risponde candidamente di sì e con le lacrime agli occhi confessa il dolore che si nasconde dietro ai suoi comportamenti. Ne ha bisogno, perché così ha imparato a fare: si è sempre sentita meno degli altri e ha pensato che essere la più brava, rendersi indispensabile, sarebbe stato il modo migliore per non essere abbandonata, per dimostrare a se stessa e agli altri che lei vale. 

“Dottoressa, devo essere io la stella del mio ufficio e non gli altri!”
“Perchè è così importante per lei?”
“Perchè altrimenti mi fanno fuori, come mi facevano fuori da piccola quando ero quella che non veniva mai scelta al momento di formare le squadre… allora ho capito: devo essere sempre la prima, così nessuno mi lascerà mai più fuori.”

Anche dietro personalità all’apparenza così forti, anche dietro i “primi della classe” spesso si cela il timore di non essere abbastanza, la paura di non essere amabili. 

Se almeno una volta nella vita hai mai pensato “non sono abbastanza”, se tutto ciò che ottieni sembra non darti soddisfazione, se non importa quanto ti impegni per raggiungere un obiettivo ma provi sempre un senso di insoddisfazione profonda soffri di un senso di inadeguatezza che evidentemente segnala qualcosa di parti profonde che chiedono di essere ascoltate. 

Il senso di inadeguatezza non ha a che fare con cosa realmente riusciamo a raggiungere, né con quanto impegno mettiamo nelle nostre sfide, è più spesso il segno di una sofferenza profonda intorno a cui costruiamo strategie per andare oltre il dolore.

In questo video:
🌾 approfondiamo i significati del senso di inadeguatezza 
🌻 esploriamo le ragioni culturali che ci spingono a non piacerci
🌸 impariamo l’importanza di accoglierci per ciò che siamo 

25/04/2021 0 comments
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lutto

L’elaborazione del lutto

by Romina Rubino 20/04/2021
written by Romina Rubino

Il lutto è lo stato psicologico che segue la perdita di una persona cara che è stata parte integrante della nostra esistenza. 

In italiano abbiamo un solo termine per riferirci al lutto, parola che deriva da “lugere” (piangere) 

In inglese invece distinguiamo: 
“bereavement” (che indica la perdita di una persona) 
“grief” (comportamenti e sentimenti che insorgono a seguito di una perdita) 
“mourning” (le espressioni sociali che il soggetto esperisce in risposta alla perdita)

Nel processo di elaborazione del lutto ciascuno sviluppa il suo personale stile per affrontare questa esperienza dolorosa.

La psichiatra Kübler Ross ha però elaborato la Teoria delle cinque fasi del lutto teorizzando il processo che porta ad elaborare la perdita.

Queste fasi del lutto possono presentarsi con tempi e modalità diverse da persona a persona, seguendo tempi e ordine di sequenza diversi a seconda dei casi. 

Prima fase: negazione o rifiuto
In questa prima fase si nega la perdita e si tende a rifiutare la realtà come forma di difesa. 
“Non è possibile, non ci credo.”

Seconda fase: rabbia
Si tende a vivere il lutto come un’ingiustizia e si può manifestare con ritiro sociale, solitudine e necessità di direzionare il dolore e/o la sofferenza esternamente o internamente.
“Perché proprio a me? Cosa ho fatto per meritarmelo?” 

Terza fase: patteggiamento, contrattazione
In questa fase si cerca di riprendere contatto con la (seppur dura) realtà e trovare delle nuove strategie per affrontare cosa sta accadendo.
“Se supero questo momento, non sbaglierò più” 

Quarta fase: depressione
A questo punto si prende consapevolezza della perdita, pensando a cosa non si potrà più condividere.
“Non posso farcela, la mia vita così non va” 

Quinta fase: accettazione
Infine si raggiunge la completa elaborazione del lutto ed accettazione della perdita. Si comprende di non essere gli unici ad aver sperimentato quel dolore e che la morte è inevitabile ed è parte della vita. 
“Bisogna andare avanti” 

L’elaborazione del lutto avviene in media in un periodo che può andare dai 6 mesi ai 2 anni.
Quando dopo questo tempo la persona si sente ancora intrappolata in emozioni negative si parla di “lutto complesso”. 

Un lutto non elaborato può condurre a una condizione patologica di lutto persistente in cui le emozioni negative diventano protagoniste e nel lungo termine possono creare un disagio profondo.
Elaborare un lutto significa separarsi non solo da chi non c’è più, ma anche da chi siamo stati con quella persona e dai possibili progetti che avevamo insieme.

A bloccare l’elaborazione a volte intervengono delle credenze inconsce che ci portano a pensare che andare avanti significhi dimenticare o tradire il ricordo della persona amata. Elaborare il lutto invece significa poter pensare con serenità e affetto a chi non c’è più e potersi far riscaldare dai ricordi, apprezzando profondamente ogni singolo momento trascorso insieme.

Il Regno Unito è in lutto per la morte del Principe Filippo, consorte della Regina, un’occasione per occuparci di questo tema e per esplorare le differenze culturali tra italiani e inglesi nell’affrontare il dolore.

La vita dei Principe Filippo è stata una vita davvero interessante.
Figlio di un principe e una principessa, nasce in Grecia il 10 Giugno 1921, ma una serie di vicende tragiche lo portano velocemente lontano dalla comodità di una vita aristocratica.
Per ragioni politiche la sua famiglia è costretta a lasciare la Grecia e lui, ancora piccolissimo, viene trasportato in una cassetta di arance. 
La sua famiglia si stabilisce in Francia, ma Filippo a 16 anni viene mandato nel Regno Unito per frequentare una scuola scozzese (con regime duro e uno stile molto severo) sotto la guida di suo zio. 

In quegli anni, mentre viene allontanato dalla madre che è in una casa di cura per schizofrenia, una delle sue sorelle muore insieme alla sua famiglia in un incidente aereo. L’anno successivo muore anche lo zio, suo tutore, per un cancro. 
Fa carriera in ambito militare e quando viene assegnato alla scorta della Principessa Elisabetta (poi regina) si innamora di lei e si sposano nel 1947.
Filippo rinuncia al suo cognome per prendere quello dei Windsor, la casata regnante e successivamente deve rinunciare anche alla brillante carriera nella marina navale per dedicarsi interamente al suo ruolo e supportare la moglie, compito che svolgerà fino alla fine della sua vita. 

La morte del Principe Filippo ci dà l’occasione di riflettere insieme sul lutto e sulla sua elaborazione. Ci permette di osservare le differenze tra diverse culture nella espressione delle emozioni legate ad eventi così intensi. 

Può essere difficile per noi italiani comprendere fino in fondo quanto gli inglesi siano legati alla casa reale: oggi è come se fosse mancato un nonno ad una nazione intera.
La cultura inglese, in molti casi profondamente diversa da quella italiana, affronta le emozioni e il dolore in un modo controllato e contenuto in pubblico, lasciando invece l’espressione della sofferenza al privato.

Chi non piange in pubblico non sta soffrendo meno: ciascuno trova il proprio modo di passare attraverso una esperienza dolorosa e credo sia importante che impariamo a rispettarne ogni espressione.

In questo video:
🖤approfondiamo le differenze tra culture nell’affrontare il lutto
🖤esploriamo diversi modi in cui può avvenire l’elaborazione del lutto
🖤mettiamo a fuoco cosa può accadere quando il lutto non viene elaborato

20/04/2021 0 comments
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Romina Rubino Psicoterapeuta Italiana a Londra
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